Quella notte per mia richiesta non si spense la luce di quella commissione al quarto piano negli uffici dell’Ordine degli Ingegneri, era il minimo che potessi fare da Presidente della Commissione che in quella stanza storicamente si riuniva, per onorare un Uomo che del servizio ai colleghi aveva fatto una missione di vita, senza pretendere alcuna carica, senza sottoporsi ai riflettori e per il quale la sua modestia era grande quanto lo era la sua competenza.

Feci anche un’altra cosa stravagante per molti, aggiunsi un pensiero nel librone dei verbali subito dopo la chiusura di quello della seduta di quel martedì e ricordo che nessuno ebbe a che dire, non perché ero il Presidente, ma perché Enrico meritava tanto e pur essendo uscito dalla ritualità delle operazioni lessi in tutti un sorriso di approvazione.

Perché la luce accesa? Perché Enrico perpetrava da anni sempre lo stesso scherzo, andandosene la sera, finito il lavoro nella sua commissione, passava dalla mia stanza mentre eravamo intenti a compilare il verbale, spegneva la luce, con la stessa soddisfazione di un bambino piccolo che aveva fatto uno scherzo ai compagni delle elementari, ma quella sera sapevamo tutti che Enrico non sarebbe passato e allora pensai che la luce sarebbe rimasta accesa in sua assenza.

Mi è tornata in mente questa figura cara e questi ricordi ormai da anni custoditi nello scrigno prezioso della memoria, pensando a queste vicende politiche dei giorni d’oggi che più che gli ideali, i partiti e le idee, hanno messo sotto i riflettori gli uomini e il loro spessore.

In un’epoca già social, dell’apparire, della ricerca di un riflettore, di una poltrona, di una carica che mostrasse al mondo il proprio prestigio, Enrico era colui che lavorava dietro le quinte, ma non perché fosse un operatore oscuro che dietro le quinte gestiscono potere, ma perché era volutamente li consapevole del suo essere e del suo sapere a disposizione dei colleghi, pronto ad aiutare chiunque a trovare la soluzione adatta.

Lo identificavo con lo “zio più grande”, così voglioso come ero di conoscere un’ambiente e un mondo per me fatto di “mostri sacri”, “gli anziani”, “il consiglio”, “i presidenti” ed ogni volta che in quei pomeriggi di volontariato del martedì, all’inizio della mia esperienza sfogliavo foderine (per noi camicie) di procedimenti presentati da grandi nomi e con grandi numeri, lui mi tranquillizzava e mi dava la giusta calma ed il consiglio adatto.

Avercene oggi di persone come Enrico, in qualunque ambiente.

Ecco perché quando oggi ci viene proposto un nome “che sa”, con la sua grande storia alle spalle, tutti tiriamo un sospiro di sollievo e gridiamo al miracolo, intenti come siamo ad affidarci a chiunque possa dare una inversione di rotta ad un paese che ha sbagliato tanto negli ultimi decenni, un paese fortemente polarizzato e con una classe politica nominata e lontana dalla gente.

Ecco perché quando chi ci guarda da fuori, non appena apprende per una volta di una nostra scelta sensata, visto il momento (attenzione non parlo necessariamente di unica scelta giusta), ma di scelta sensata, plaude al nostro indirizzo, nazione da sempre amata ma sfottuta per la capacità di avere più governi che anni di anzianità della storia repubblicana.

Ho sempre visto con curiosità la naturale tendenza del nostro paese a cercare l’uomo della provvidenza, scambiato spesso con l’uomo forte o con l’uomo che più grida a questo mondo. Ho sempre visto con diffidenza l’uso di altri aggettivi a sproposito per queste vicende, quali “responsabili”, “traghettatori”, “costruttori” come se l’unico e possibile obiettivo una volta raggiunta la posizione fosse il tirare a sopravvivere, sopravvivere che brutta parola.

Se solo si pretendesse di vivere, questo paese avrebbe tanti di quegli Enrico pronti a lavorare con competenza per la collettività senza pretendere alcun riflettore, ma questa dopo le delusioni che ci hanno regalato i populisti che volevano aprire il sistema come una scatoletta, forse è una utopia. Un abbraccio, Epruno.