Lo chiamavamo sputa in cielo
È ovvio che non si chiamasse così però per noi confidenzialmente era da sempre sputa in cielo. Un bimbo particolare, non nascondo che tutti coloro che avevano l’età per stare in piedi erano da subito cooptati nella squadra di calcio della zona, persino i più scarsi che come al solito, venivano messi in porta.
Da piccoli si aveva un’idea del pallone molto particolare e confusa, a partire dal fatto che parlare di “pallone” era già un lusso visto che si giocava per strada con qualunque cosa potesse ricordare la forma sferica.
Se poi qualcuno riusciva ad ottenere in regalo dai propri genitori l’acquisto di un pallone (come il Super Santos o ancor peggio il San Siro) la cosa si faceva seria, benché questi palloni di plastica leggeri decidevano di prendere arbitrariamente le traiettorie e i ragazzi “in campo”, più che seguire schemi calcistici, si trasformavano in serpentoni di bambini all’inseguimento di un pallone e correvano minacciosi nella direzione della porta dove per pronto accomodo l’involontario portiere si scostava lasciandoli passare per paura di essere travolto.
Ma a questo gioco sputa in cielo non partecipava, lui era particolare, lui stava nel marciapiede di fronte, aveva un cappellino per proteggerlo dal sole è una palla più piccola del pallone di calcio, il suo feticcio e passava il tempo a posizionare questa palla nelle mani emettere un suono particolare con la bocca, del tipo “ptiuuuuu”, lasciar cadere la palla e colpirla con il suo piede destro, facendogli percorrere una traiettoria verticale, perfettamente perpendicolare e ripeteva questo gesto più e più volte, credetemi, con una maestria che malgrado fosse una cosa straordinaria, non ne comprendevamo il motivo.
Ogni tanto la mamma che non lo perdeva d’occhio, attraverso la persiana, facendo i suoi lavori di casa, scendeva lo accarezzava, tergeva suo sudore e gli dava un bacio sulla testa e rivolgendosi a noi diceva “vi raccomando a mio figlio”.
Se ci penso era straordinario l’amore di quella minuta mammina per quel minuto bambino, il migliore che Dio gli avesse potuto concedere e che di contro per noi aveva una sola grande dote, la possibilità di tirare la palla in perpendicolare.
Giocavamo su quel marciapiede davanti la scuola per ore nei nostri pomeriggi d’estate, mentre nel marciapiede di fronte all’ombra sputa in cielo passava lo stesso tempo a ripetere il suo gesto.
Un giorno accadde l’imprevisto, Rosario uno dei bambini, con grande orgoglio portò con sé il pallone di cuoio vero che per il compleanno il padre gli aveva regalato, fu così che per una volta avremmo giocato tutti contemporaneamente con un vero pallone di cuoio, benché il resto a partire dai quattro balatoni che segnavano le porte, il gesso per terra che disegnava un ovale che doveva ricordare a malapena il centrocampo, il battuto cementizio del marciapiede facevano lontanamente ricordare un campo di calcio. Come dicevo quel giorno avvenne l’imprevisto, mentre giocavamo con questo nuovo pallone, durante un rinvio la palla di cuoio finì tra le fronde dell’albero sul marciapiede.
Dopo una prima ricognizione, cademmo tutti in grande sconforto a partire da Rosario che piangendo ripeteva “come faccio a tornare a casa senza il pallone di cuoio, chi glielo dice a mio padre che è il pallone si è arroccato, mio padre mi darà bastonate”. Ora malgrado fossimo tutti ragazzi di strada i nostri genitori erano variamente divisi nella scala sociale e pensare in questo caso che un avvocato potesse bastonare il figlio era inverosimile, ma nel nostro immaginario, era una possibilità.
Non ci perdemmo d’animo, cominciarono tutti tentativi, la ricerca di un bastone lungo che potesse giungere alle fronde dell’albero, per fare cadere il pallone, ma ogni tentativo rimase vano, tentammo anche una improbabile infruttuosa scala umana cadendo tutti per terra, fin quando Mario si voltò verso il marciapiede di fronte e disse “io ho la soluzione” tutti guardammo verso sputa in cielo che inconsapevolmente continuava nel suo gesto, lo prendemmo di peso, mentre il bambino cominciava non solo a districarsi ma a emettere suoni che erano completamente diversi da quelli usuali, lo portammo nel marciapiede di fronte e lo piazzammo sotto l’albero.
Mario ebbe il tempo di posizionarlo quasi in perpendicolare con il pallone nelle fronde, diede la sua palla a sputa in cielo e gli disse “sputa fai il tuo dovere”. Io non credo che sputa in cielo avesse capito qualcosa di ciò che stava accadendo, però riprese “la sua normalità” e calciò quel pallone con una perfezione perpendicolare tale da colpire il pallone di cuoio che a quel punto divincolandosi dalle fronde cadde a terra tra le urla festanti di tutti noi ragazzi, assieme alla pallina di sputa in cielo, che fu preso di peso e portato in trionfo per il giro del marciapiede e credetemi ebbi la sensazione per la prima volta di riconoscere un sorriso in quella faccia sempre mono espressione del bambino.
Da allora sputa in cielo seppur non integrato per ovvi motivi nella squadra di calcio divenne personaggio autorevole dalla nostra compagnia, quasi una mascotte, conservo da qualche parte una fotografia dove tutti noi, con la prima magliettina gialla e rossa uguale regalataci con la crocetta appesa sul petto, ci mostravamo in formazione alle improvvisato fotografo, con a destra il nostro presidente (altro personaggio), con occhiali Ray-Ban per sembrare ancora più vero, Rosario il portiere con il pallone di cuoio tra le mani e lui sputa in cielo con il suo cappellino e la pallina d’ordinanza in mezzo a noi mentre Mario lo abbracciava per il collo.
I bambini sognano e da piccoli vivono in un mondo meraviglioso dove non esistono diversità, figuratevi l’autismo, sputa in cielo era un bambino per noi strano, ma bravo poiché aveva una dote per noi è impossibile, quella di calciare il pallone in verticale mantenendola perfetta perpendicolarità. Vorrei esser rimasto bambino per non soffrire delle diversità che riscontro giornalmente.
Un abbraccio, Epruno