Archivio per la categoria: La Voce di Epruno – L’Editoriale

“Camminare”

Provate a farlo con i vostri piedi se ci riuscite.

Provate a raccontarmi alla fine quanta strada avrete percorso. Provate a camminare con i vostri piedi se questi vi sostengono, provate a farlo con ginocchia ammalate o con il supporto di stampelle.

Adesso provate a guardare attorno a voi tutta quella gente che a piedi corre e provate a convincervi che “chi va piano, va sano e va lontano”!

Aimè, scoprirete che mentre voi camminate, c’è chi attorno a voi corre, non solo a piedi, ma usa qualunque mezzo per andare quanto più lontano possibile.

C’è chi utilizza l’auto, c’è chi utilizza il treno, c’è chi utilizza l’aereo non solo per arrivare prima, ma per andare più lontano, proprio mentre voi camminate.

Adesso, provate a riempirvi le vostre scarpe di pietre, di fastidiose pietruzze  che in queste strade sterrate facilmente capita di imbarcare, il vostro intercedere non sarà cosi sicuro e scevro di dolori, immaginate inoltre che la vostra strada sia sconnessa ed in salita e mentre voi sudate, provate a guardare chi con le moto da cross vi supera e corre davanti a voi fino a diventare un puntino a perdita d’occhio e fin quando le gambe non vi faranno male. Avrete ancora il coraggio di dire: “chi va piano, va sano e va lontano”?

Ma l’uomo è uno strano animale che scrive le regole già pensando alle deroghe e per salire gli ardui gradini, usa e in modo improprio, “l’ascensore”!

Siete ancora convinti “che l’importante sia partecipare”?

E si! La vita è strana, ma pur sempre bella, ma occorre stare concentrati nella propria strada e nella propria camminata per arrivare comunque a qualcosa, ed evitare di etichettare il proprio transito terrestre come un vero e proprio fallimento.

E’ questo il momento in cui comprendi tante cose, ad esempio perché il cavallo con la sua carrozzella procede spedito, tenendo i paraocchi, oppure perché al velocista che corre i 100 metri piani, nella sua corsia, è dato consiglio di non voltarsi a guardare cosa fanno i suoi avversari affianco a lui o addirittura dietro, per non perdere preziosi secondi che inficerebbero il risultato finale.

Purtroppo non è pessimismo, ma sano realismo, i bilanci si fanno soltanto alla fine e con le proprie risorse, avendo contezza del punto di partenza, avendo un progetto di vita che fissi un punto di arrivo ed aggiungendo una buona dose di spezie data dalla costatazione, da me sempre ricordatavi che “la vita è in comodato d’usoe senza alcun contratto, senza alcuna scadenza prefissata, vi verrà in qualunque momento richiesta in dietro, in qualunque stato essa sia!

Ed allora, se cammini, corri, vai in auto, in treno o voli in aereo, un segreto per essere felice è il sapersi godere quello che si ha, ancor prima di vivere nell’affanno di ottenere una nuova cosa, essere prima di tutto felice di se stessi! Questa è la vera saggezza, questa è la vera chiave di lettura di una vita, Come diceva quel tipo in carrozzella … “Questa è la vera elemosina”!

 

“Chi è il responsabile?”

Watzlawick affermava che “non può non comunicare” ed io aggiungo che “non si può non occuparsi di politica” se vuole vivere in comunità con gli altri. Il modo stesso di come ognuno di noi intende vivere in società si trasforma continuamente in atti politici.

Se butto l’immondizia facendo la raccolta differenziata o la lascio all’angolo buio della strada formando una discarica abusiva, sto già prendendo una decisione politica. Se chiudo abusivamente tre elevazioni sopra la mia palazzina a due piani, sto facendo politica. Se posteggio in doppia fila, fregandomene delle code e del traffico che si forma, per lasciare i miei figli a scuola, sto facendo politica. Se continuo a trascurare chi guida parlando costantemente al telefonino e multo senza pietà chi posteggia in zona rimozione, faccio una scelta politica. Se privilegio il diritto di cento di manifestare ma in modo tale da bloccare una città di restanti settecento mila, meno cento, faccio una scelta politica.

La politica, la facciamo e la subiamo tutti a meno che non decidiamo di vivere in eremitaggio sul pizzo di una montagna. Se non prendiamo consapevolezza che la nostra proprietà privata, si estende fuori dal nostro uscio di casa, diventando proprietà comune, non saremo mai un popolo, non capiremo mai nulla di politica e continueremo a sopravvivere fin quando lo sfascio definitivo non seppellirà, non una nazione, ma un insieme di “furbastri” individui.

Comune, vuol dire, proprietà comune, proprietà di tutti!

Qui, casca l’asino poiché attraverso questa sottile distinzione, nascono le diverse “filosofie politiche” di questa terra, nasce la continua lotta da parte di chi, ignorante pensa che la cosa di tutti non appartiene a nessuno e la lascia deperire imprecando contro colui che dovrebbe giungere chi sa da dove, per ripararla costantemente ed il furbo che accusa il sistema e distraendo tutti, si impossessa della cosa pubblica dicendo “è mia”!

Quest’ultimo inganna tutti con una parziale verità, poiché è vero che la cosa pubblica è sua, ma è anche di tutti gli altri, ed ecco perché a questo punto è necessario avere una politica seria che offra pari opportunità sulla cosa di tutti. Quindi, chi è peggio tra i due?

Sono entrambi deplorevoli, ma sono maggiormente deplorevoli, coloro che non scelgono, scelgono male o scelgono con atteggiamento sufficiente i loro delegati e perdono il diritto di essere rappresentati nella democrazia attraverso un diretto consenso, lasciando nelle mani dei pochi la “nomina” di “utili individui” senza alcuna delega popolare, senza alcuna conoscenza del territorio, dilettanti allo sbaraglio a garantire atto di presenza e alzata di mano per garantire la volontà e gli interessi di pochissimi.

Chi sa, fa! Chi non sa, e non ama farsi prima esami di coscienza, continuerà a chiedersi, “chi è il responsabile”, fin quando non ci saranno più “capri espiatori” ….

 

“Tabù”

Per me era un grande uomo, ma “ci fitianu i piedi”.

Avete capito bene! Ignazio era partito come tanti in quel periodo per fare fortuna in Germania e come pochi era tornato per nostalgia, trovando uno dei posti migliori a quel tempo, ossia come portiere custode in una bella portineria.

Ricordo ancora il giorno in cui ritornò col suo cappello bavarese in testa, e le valigie attaccate con lo spago.

A lui basto poco tempo per ritrovare gli stimoli e non si persa d’animo, riorganizzò lo spazio davanti la sua efficiente portineria, come se fosse una piccola Svizzera, ma dirò di più, una piccola Germania.

Spesso noi ragazzi, sollecitavano in lui, racconti di quell’esperienza straniera, vissuta nella terra delle tedesche e la narrazione, partiva dalle donne, ma finiva toccare temi sociali e confronti con la nostra Italia, intenta anch’essa a ricostruirsi, ma con maggior lentezza.

Ripensadoci, Ignazio oggi sarebbe stato qualificato quale simbolo della diversità culturale, quale formatore antesignano, in un periodo nel quale nasceva l’idea di Europa comune, ed i Tedeschi erano per noi quella di “Italia Germania 4-3”. Attraverso Lui la Germania appariva ai nostri occhi quale terra di pulizia, di grande organizzazione, di grandi lavoratori e di teutoniche estimatrici dell’uomo latino.

Proprio per questo ogni suo discorso si concludeva con una nostra considerazione: “allora Ignazio, se stavi così bene in Germania, perchè sei tornato?” A questa domanda il suo sguardo diventava subito triste …

Purtroppo, e specialmente d’estate, benché fosse diventato per noi come una enciclopedia vivente, la nostra attenzione non riusciva a superare i 5 minuti, poiché come dicevamo, Ignazio aveva un problema, un grosso problema.

Nessuno aveva mai trovato il coraggio di consigliargli l’uso di scarpe chiuse, in alternativa a quei comodi sandali francescani e fu così che come sempre accade dalle nostre parti, al posto di risolvere il problema affrontandolo direttamente, si presero provvedimenti generalizzati di disaggio per l’intera collettività.

Il grande condominio, possedendo più scale e due ingressi, decise di chiudere l’accesso sulla via principale e di aprire custodito soltanto l’ingresso secondario, meno frequentato che dava su immenso spazio aperto, ancora in costruzione e dove il nostro Ignazio oltre a ventilarsi, aveva il suo ben da fare a ramazzare in continuazione la polvere degli scavi dei cantieri.

Ero troppo piccolo, ma dovevo già capire come vanno le cose in questo mondo.

A poco a poco anche il nostro interesse verso Ignazio una volta relegato in una situazione periferica, scemò, ma anche questa storia ha la sua morale!

Puoi essere un genio, puoi avere tante cose da raccontare, non importa il tuo passato e se hai “le mani pulite”, ma se vuoi essere ascoltato con attenzione e preso in considerazione …… “lavati i piedi”!

“Chi Ti Purtaru?”

Chi ti purtaru i muorti?

Ma che cosa mi dovevano portare? Sono certo che anche loro, dall’aldilà avranno avuto i loro problemi a trovare qualcosa da regalarmi per rendermi felice.

Eppure, ci sarebbe stata qualcosa che mi avrebbe potuto fare felice, visto che non ho più l’età per “la pupaccina” o per “la pupa cu l’anchi torti”.  E dire che con cotanti morti avrei potuto chiedere cose importanti come “la pace nel mondo”, ma per questo sono certo che ci ha già pensato Miss Italia.

Avrei potuto chiedere i numeri per fare un bel superenalotto. Avrei potuto chiedere tanti soldi, da rendermi ricchissimo! Eppure no! Mi conosco bene, sarei stato comunque infelice. La felicità è vera felicità soltanto se la si può condividere con gli altri!

Se ci penso bene però, ci sarebbe una cosa che mi avrebbe potuto rendere felice, ma che difficilmente i “morti” avrebbero potuto comprarmi dall’aldilà, …..Un po’ di NORMALITA’!

Si, un po’ di normalità! ………La possibilità di vivere con serenità un po’ di normalità in una vita non dico tranquilla, troppo lusso, ma normale, fatta di cose normali, fatta di gente normale, in una città normale che vive il quotidiano attraverso la riscoperta di cose semplici a costo zero, senza che fossero sbandierate a destra ed a manca!

La normalità!…….. Riuscire a scoprire che sulla strada che mi porta al lavoro quotidianamente, si affacciano le vetrine dei negozi o delle botteghe, con le loro esposizioni in vetrina, più o meno accattivanti, ma normali.

Una città senza il suffisso “iper”, dove i mercati sono fatti di piccole cose e di tanta gente che si incontra e si saluta, fermandosi a chiacchierare, senza necessariamente doversi messaggiare, chattare su internet o chiamare al telefonino.

Una vita normale fatta di gente che si da appuntamento la sera al bar per raccontarsi storie o sfoghi, senza necessariamente taggarsi.

Un mondo normale dove anche i brutti, i senza nome ed i perdenti hanno diritto di cittadinanza, dove la politica è un normale esercizio di democrazia.

Un mondo normale, fatto di gente dignitosa, fatto di gente che lavora per vivere e non vive per lavorare, un mondo semplice dove poter coltivare i propri sogni. Un mondo normale non globalizzato o peggio conformato! ……

Ecco cosa avrei chiesto ai “morti”

“Che Ci Ridi?”

Mio padre lavorava dodici ore al giorno, usciva la mattina con il buio

e tornava a casa con il buio, stanco, non si lesinava poiché aveva una famiglia da portare avanti ed aveva la giusta ambizione e la voglia di andare avanti era premiata, ma mio padre tornava a casa stanco ma  sorridente.

Ma che cosa aveva da ridere? Ma mio padre sognava per noi un futuro migliore!

Quello era un mondo in bianco e nero, ma con tanta voglia di divertirsi, quello era il mondo da pochissimo uscito da una guerra mondiale che aveva diviso un paese e che aveva sconvolto il mondo.

Se ci penso anche io sono nato che non erano passati molti anni dagli eventi bellici, quasi lo stesso periodo che ci separa dal passaggio di secolo, che sembra ieri. Ecco, ero nato che la guerra era finita ieri, mi riguardo le foto dell’infanzia in cui sorrido e penso: “Ma che cosa ci rido a fare?” Ma io bambino, sognavo già fin da allora!

In quelle foto, in quei primi filmini in super 8, quel mondo fatto di vestiti riciclati da padre in figlio, fatto di 500 fiat, fatte di autobus verdi e di cambiali, quel mondo del programma del sabato sera visto tutta la famiglia insieme, quel mondo dei film di Totò, di Don Camillo e Peppone, quel mondo di lascia o raddoppia, di Mike Bongiorno che esordiva con “Allegria”!

“Ma che cosa ci rideva?”  Ci verrebbe di chiederci “Ma dove stava tutta questa allegria?”

Eppure, l’Italia sognava e la felicità era a basso costo ed a portata di mano e se non avevi soldi, potevi scommettere sul tuo futuro, anche se avevi le toppe nel sedere, perché era il mondo dove il sacrificio veniva premiato ed il “pezzo di carta” contava qualcosa!

Ammettiamolo, stavamo peggio, la qualità della vita oggi è migliorata, i desideri oggi sono diversi e se volete ben più futili, ma siamo sempre infelici e preoccupati.

La disoccupazione era alta allora, tanto che si doveva emigrare, eravamo un popolo ignorante di contadini felici che partivano con la valigia di cartone, con il sorriso della speranza, partivamo in cerca di fortuna con il treno verso il nord ed in quelle foto di gruppo sorridevamo!  “Ma che cosa ridevamo a fare?” Andavamo incontro al nostro sogno di stare meglio!

Oggi che in realtà avremmo tanti di quei motivi per sorridere e ridere, malgrado le difficoltà di base non siano cambiate, malgrado l’offerta televisiva si sia moltiplicata smisuratamente attraverso pessimi programmi con litigi artefatti o risate registrate,

ci hanno spento il sorriso perché ci hanno rubato i sogni ………………..

 

“Acqua e Fuoco”

Due elementi naturali dal fascino irresistibile.

Due elementi stoici che non riescono a convivere, poiché normalmente se c’è l’uno non può esserci l’altro.

Due elementi che rappresentano l’esatto contrario.

La vita è una continua contrapposizione, come l’acqua ed il fuoco ed il nostro vivere è un continuo destreggiarci tra questi due elementi, imparando a dosarli, imparando a governarli senza fare mai l’errore di lasciarsi prendere dalla troppa confidenza nel gestirli.

E dire che di acqua siamo fatti per la quasi totalità, ma che dire delle fiamme, quelle che fanno bruciare dentro di noi le passioni?

Acqua e fuoco, quali esempi di modiche quantità sopportabili, poiché alla loro esagerata presenza, bisogna come da saggezza popolare dare un apposito luogo, un contenitore, una limitazione, disegnare uno stretto steccato nel quale permettergli uno sfogo.

Acqua e fuoco, quale simbolo di misurata quantità.

Difatti, la fiamma che è per noi fonte di calore, se troppo alimentata, se esageratamente alimentata può risultarci fatale.

Ma anche l’acqua della quale siamo fatti, quell’acqua che ci disseta, quell’acqua che ci bagna o ci pulisce, se esonda diviene fatalmente fonte di distruzione.

Acqua e fuoco, nella simbologia della vita comune.

Quante volte affermiamo di vedere l’acqua negli occhi altrui, quante volte ci pregiamo di dissetarci alla fonte del sapere, quante volte dichiariamo di sentirci il fuoco nelle vene presi da grande energia, quante volte ci sentiamo brucati sbagliando un importante obiettivo o rimanendo danneggiati, da chi tarpandoci le ali ci compromette speranze di carriera o brillanti futuri.

Acqua e fuoco, due elementi associati ed estremi, il fuoco della dannazione e l’acqua della santità.

Il fuoco quale fiamma, elemento naturale dell’inferno, dove trovano residenza tutti demoni, anche quelli che affollano la nostra mente, dove si bruciano le dannate ambizioni.

L’acqua, come acqua santa per benedire, per toglierci dal peccato, per purificarci, per spegnere il fuoco dell’inferno, per lavare le nostre mani e mantenerle pulite.

Eh si …. l’acqua,  quella che copiosa negli sciacquoni porta via la merda, la tanta merda umana, per la quale non basterebbe neanche un nuovo diluvio universale.

 

“Generale”

Penso che ognuno in questa società abbia il proprio ruolo che spesso dovrebbe nascere da specifiche competenze, in altri casi da ambizioni, nella peggiore delle ipotesi da ripieghi, ma una società organizzata può fidare su ruoli ben precisi, una società organizzata può ambire a diventare un popolo, poiché un popolo si identifica in una unica identità nazionale e non si frammenta in tante individualità pronte a garantire il proprio ego e poco avvezze al bene comune.

Una società organizzata, va guidata bene, anche attraverso le difficoltà, anche quando necessita affrontare sacrifici con l’unico intento di garantire una doverosa qualità della vita.

In genere per guidare un mezzo, ci vuole una patente, bisogna aver studiato e fatto degli esami, ma perché al giorno d’oggi, si ha poca prudenza nella scelta delle “guide”?

Di questi tempi, per guidare una collettività basta soltanto esser stati nominati da questo o da quel potere oscuro, non risulta indispensabile alcuna qualità, spesso e volentieri basta essere un buon “interprete” o un “dilettante allo sbaraglio”!

Eh si! ….. Sembrerebbe che il guidare e governare la collettività non sia più l’interesse principale dei poteri veri, ma soltanto un diversivo dall’accaparramento ed occultamento di ricchezze!

Siamo davanti ad uno sconvolgimento della scala di valori.

Tutte le attenzioni sono volte all’economia, addirittura si governa un popolo pensando soltanto a far quadrare i conti dello stato, da bravi ragionieri, senza perdere tempo a chiedersi se la gente stia bene.

E dire che tanto virtuosismo rigoroso, non porterà molto lontano.

Anche il cavallo bravo nell’aver imparato a non mangiare ad un certo punto, morì di debolezza!

Sembra proprio che questa nostra terra sia da sempre in balia di una leadership remota, basata su criteri e principi che possano andar bene in altre latitudini e non esportabili, e che la gente abbia perso la capacità di trovare i propri “Generali”.

“Dove sono i Generali che si freggiaron delle battaglie…?”

Dove sono i Condottieri? Che fine hanno fatto i Leader? Chi ci guiderà ormai verso la vittoria o solamente verso la salvezza, in un luogo sicuro?

Abbiamo sovente davanti dei falsi profeti che nascondono le loro incapacità ed i propri insuccessi, additando colpe altrui!

Si erano mai visti Generali, sparare sul proprio esercito?

Un leader costruisce i suoi meriti, condividendoli con i suoi uomini, di contro, le colpe ed i colpevoli, vengono ricercate da altre importanti figure, che di solito, …………. si chiamano “Giudici”! …..

“Il Vestito Migliore”

Il vestito migliore, quante volte lo abbiamo indossato!

Il vestito migliore, si chiama così, poiché è il più bello, il più costoso, certe volte l’unico, tra quelli dignitosi che abbiamo e ci serve, come spesso si usa dire, per “fare figura”.

Il vestito migliore è quello che utilizziamo per le occasioni e proprio perché è il migliore, spesso queste occasioni, non sono tante nella nostra vita, ma sono quelle da prendere al volo, quelle che ci cambiano l’esistenza.

Il vestito migliore è quello che indossavamo fin da bambini, quando le nostre madri ci vestivano e ci preparavano per l’evento e ci richiamavano all’ultimo minuto per dare gli ultimi ritocchi ai capelli.

Il vestito migliore è quello che mettevamo il giorno degli esami di maturità o addirittura il giorno della laurea, per un duplice scopo, il primo quello di grande rispetto celebrativo per l’evento che stavamo affrontando, il secondo per rimanere indelebile nei ricordi che da questa circostanza ne sarebbero restati.

Ma il vestito migliore è stato anche quello del primo appuntamento, quello che ci ha aiutato a conquistare con la prima impressione, così come è stato quello che abbiamo indossato il giorno del matrimonio e che campeggia in casa nella cornice d’argento, in quella espressione presa da una giornata felice, che per molti si annovera come l’unica, di vite difficili, a volte sbagliate, a volte brevi e per le quali la foto con il vestito migliore , il giorno delle nozze, rimane la foto del ricordo.

Paradossalmente, il vestito migliore e quello che ci accompagna nell’ultimo viaggio, anche quando non avremmo bisogno di tanto spreco, quando saranno gli altri a prepararci, visto che saremo arrivati alla fine di un percorso.

Il vestito migliore quale simbolo dell’ultima speranza del genere umano, della gente povera, della gente modesta, della gente dignitosa ad ogni latitudine e ad ogni cultura.

Non bisogna meravigliarsi se in certe inconcepibili tragedie, raccogliamo in mare, i resti di poveri disgraziati dentro il loro vestito migliore, quello indossato dopo aver venduto “tutto” che in queste circostanze può coincidere con “poco o nulla”, per comprare dal “caronte scafista” il viaggio, il passaggio, l’attraversamento che avrebbe potuto cambiargli la vita, fuggendo da una esistenza priva di speranze.

Il vestito migliore quello che ci rende un po’ ….. tutti più uguali …..

“Siamo Sporchi”

Siamo sporchi e purtroppo sporchiamo tutto ciò che tocchiamo.

Legati al secolo, ai privilegi, ai ruoli, facciamo di tutto per scongiurare la consapevolezza che prima o poi bisogna passare la mano.

Diversamente, cambiando le regole, si diventa sporchi e si sporca tutto ciò che ci circonda, finanche i giovani per truccarli come noi e manovrarli da burattinai nascosti, perpetrandoci la giovinezza.

Spesso dimentichiamo che pensionarsi, vuol dire si, “togliersi dai coglioni”, ma non vuol dire essere inutili. La vita è fatta di cicli e concluso il ciclo lavorativo per il quale viene stabilito un tetto biologico, si comincia una nuova vita per la quale non dobbiamo aver paura di essere anziani. Se la nostra vita era vuota prima e riempita soltanto dal ruolo sul lavoro, sarà vuota, vuotissima, anche la nostra pensione.

Avete mai notato come in altre nazioni, giungendo vicini al pensionamento, la gente si compra una barca a vela per godersi successivamente la propria libertà? Questa è qualità della vita!

Ma purtroppo nel nostro paese nessuno ha la dignità di guardare il proprio orologio biologico e farsi da parte, anzi, se qualcuno lo fa, già pensa a come ingannare la natura e la collettività, per ritornare alla ribalta con un nuovo ruolo da esterno! Ma così facendo, quando toccherà ai giovani? Purtroppo non c’è e non ci sarà mai un patto generazionale pronto a far fuori gli ingombranti “grandi vecchi”, intendiamoci, brave persone, ma con un cervello ormai usurato dagli anni e non nascondiamocelo, obsoleto. Quando vediamo giovani nei posti che contano, inorridiamo già difronte al loro aspetto “giarno”, “dal vecchio dentro” che si portano, dalla loro paura di dire ciò che pensano e di rischiare di passare per impopolari. Poi abbassiamo la luce ed in penombra vediamo una persona vestita di nero con una calzamaglia nera, che da dietro, muove il giovane burattino.

Dove vogliamo andare? Ma quale spread, ma quale IMU, quale conflitto di interesse, quale cultura posta a speranza, quale anti qualunque cosa, quale addio a questo ed a quello? Se dietro ci sarà sempre “l’uomo nero” per garantire il chroma key, se dietro ci sarà il papà mimetizzato, se dietro ci sarà “il padrino” truccato ..….. questo paese morirà! Si … si estinguerà e resteranno purtroppo solo i vecchi che anche in buona fede, anche per amore, troppo amore, morboso amore per i propri figli, ritardano a togliere le rotelle delle loro biciclette, facendo crescere a loro volta dei vecchi! Questo paese è ormai vecchio, ma quello che preoccupa in prospettiva è che non costruiamo più giardinetti pubblici con delle belle panchine.

 

“Il Vecchio”

Non so quanti anni avesse avuto, certamente non era più giovane, ma neanche tanto vecchio, sarà stata la sua voglia di smettere con la qualunque, finanche con la lama del rasoio, che gli regalava quell’aria trasandata agevolata da quella barba incolta.

Aveva smesso! Non so cosa facesse di specifico e penso che probabilmente sarà stato un uomo attraente da giovane, ma qualcosa, o nulla, lo avevano portato da un certo momento in poi a salirsene sulla punta della sua montagna panoramica per rimanere li a guardare il mare.

Eh già, che strano, il mare visto dalla montagna era certamente una condizione unica, ma assomigliava più alla voglia di un isolamento contemplativo, che ad una sparizione. E lui stava li.

Non riceveva nessuno, eppure chi sa quanta gente aveva frequentato, chi sa quanta gente avesse incontrato, chi sa per quanta gente era stato importante e determinante, eppure adesso era li sul pizzo della montagna, non tanto a guardare cosa facesse giù l’umanità, ma a guardare il mare e l’orizzonte, come colui che attendeva ancora qualcosa da venire.

Il vecchio, era si vecchio, ma manteneva in se tutti i desideri dei giovani poiché non era certamente stato sempre vecchio, anzi, dentro di se si sentiva ancora più giovane di qualunque giovane egli avesse incontrato, ma, aveva smesso.

Per vedere il mare, non era necessario guardare accanto a lui, come lui l’orizzonte, ma basta guardare fisso nei suo occhi chiari, per immergersi in lunghe bracciate, in grandi nuotate o soltanto galleggiare.

Certe volte lo vedevi li assorto mentre guardala la sua vecchia TV o sentiva alla sua radio, sempre gli stessi programmi, sempre le stesse cose e lui li attento, a dare la sensazione di vedere e di sentire quelle cose per la prima volta, con grande meraviglia.

Tutto, attorno le sue giornate si ripeteva con ciclicità ed il vecchio stava zitto, tanto che qualcuno arrivo a pensare che era muto, se non fosse stato per quel poderoso rutto che chiudeva con soddisfazione tutti i suoi pasti.

Il vecchio era li, con il suo sorriso sornione di chi aveva visto tutto, di chi prevedeva le mosse altrui perché li aveva osservati bene ripetere i loro gesti, i loro errori, presi dal loro orgoglio. Tanta cocciutaggine lo aveva portato a stancarsi delle cose e del prossimo, lo aveva portato a smettere come colui che non voleva più giocare e si teneva lontano dalle folle transumanti e belanti o compiacenti, ma non perché fosse diventato scucivolo, ….. Si era soltanto rotto i coglioni!