Carissimi
Il professore aprì la porta di quell’aula e trovatosi davanti a una riunione per lui non autorizzata chiese solamente: “chi è il responsabile?”
Non chiese di certo: “che cosa sta succedendo? Chi siete? Chi vi ha autorizzato?”
Chiese semplicemente “chi è il responsabile?”
Quella mattina all’università in quei meravigliosi anni 80 non compresi che il mondo stava cambiando, il modo di approcciarsi alla realtà e a quello che sarebbe stato il futuro, nel mio caso anche professionale, stava nascendo in quegli atteggiamenti: “chi è il responsabile?”
Come dico spesso nei miei incontri occasionali con gli allievi universitari, avendo il piacere di essere invitato a discutere di questi argomenti, eravamo a ridosso dei mitici anni 90, che avrebbero introdotto in quello che era il sistema normativo la figura predominante del “responsabile”.
Venivamo fuori dagli anni vissuti per riflesso, almeno nella mia generazione, delle mitiche rivoluzioni culturali legate ai moti studenteschi, il 1968, dove si mise in discussione l’autorità costituita e dove si andava alla ricerca della libertà di pensiero e dei costumi, e dove si poteva fare soprattutto ciò che si voleva.
Si era ritornati nei recinti degli obblighi e dei doveri, ma soprattutto si era inventata una “genialata” che ci distraesse dalla ricerca immediata delle soluzioni, davanti ad un problema, prediligendo la ricerca delle colpe, del capro espiatorio, davanti a un qualunque assembramento, era più comodo conoscere chi fosse il “responsabile”, così la massa si diradava e lasciava da solo al centro di quel contesto un individuo, il “responsabile”, “colui disposto a pagare per le colpe di tutti anche quando personalmente non avesse alcuna colpa”.