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Perchè Nemo Profeta in Patria? Per la vecchia e malsana invidia

Carissimi
Perché “Nemo” profeta in patria? Per invidia, soltanto la vecchia e malsana invidia, ciò che porta la gente ad ostacolare e fare del male a chi ha qualcosa che loro vorrebbero avere e non hanno, o per volere stoppare sul nascere qualunque germoglio che potrebbe finire per essere incontrollato.
Ogni qualvolta l’uomo si costituisce in circoli, piccole comunità, congregazioni, associazioni e genera cariche elettive, fomenta ancor prima delle aspettative, le invidie.

Io ho già iniziato progressivamente a dismettere le partecipazioni nel mio tempo libero a quelle organizzazioni che si definivano “d’impegno”, perché “ho già dato” e adesso lascio lo spazio per chi venendo dopo vuole costruirsi il suo “personaggio”.
Dietro ad aspetti caratteriali ho finito per riguadagnare la naturale libertà di azione e di pensiero, scoprendo come sia più efficace per veicolare e mettere a disposizione idee ed esperienze a seguito di una lunga esperienza fatta sul campo, senza necessariamente annoiarmi nel sentire “discorsi del cazzo” da parte di chi deve attestare la propria presenza, nell’attesa che tocchi il mio turno.

Nessuno ha più da invidiarmi nulla o bastoni tra le ruote da mettermi e con le asole delle giacche libere, o alleggerito da toghe, mantelle e pettorine sono ritornato alla semplicità quasi risorgimentale delle priorità “Dio, Patria e Famiglia”.
Dio, in quanto unica autorità alla quale rendere conto per un credente (e non metto alcuna mediazione di organismi e associazioni che vantano contatti diretti con il creatore);

La Patria, quale unico modello di convivenza civile nel quale lavorare per sostenersi e contribuire alle esigenze della collettività per cui lavoro;
La Famiglia, unica culla degli affetti veri e rifugio dopo ogni procella.
Certo, non tutti hanno una età per essere “aventiniani” come ed è giusto che si mettano in competizione con loro e con gli altri, ma state certi che se dietro (oltre alle nostre qualità) non ci sia un vero padrino che ci orienti, ci segua e ci promuova nel nostro percorso, una volta vi avrei detto che sarebbe stato più difficile giungere alla meta, oggi vi dico, direttamente e con meno ipocrisia: “levateci mano!”.

In questi anni i cerchi magici si sono strutturati bene creandosi pure le regole affinché divenissero impermeabili ai tentativi esterni di “Nemo” a venire a fare il “profeta in patria”.
Ora come non simpatizzare con “Nemo” (inteso come “nessuno”) che vuole essere profeta in patria e che deve scontrarsi non soltanto con i muri, ma con i contenuti interni che lui sa bene essere al disotto del suo valore, ma come tali protetti dai confini della “sfera magica” e anche se per qualche scognita distrazione avesse trovato il modo di entrare si sarebbe dovuto scontrare con la vera arma di difesa interna di qualunque “sistema”, l’invidia.

È vero, la meritocrazia è una chimera, la “botta di culo” può capitare, la “piccineria dei continui tradimenti” è la prassi, poiché non è importante sforzarsi per essere più bravi degli altri (aimè non è una gara d’atletica) ma ci si deve concentrare per dimostrare che l’altro è peggiore di te, passando il tempo a fare da delatore e tramando.
Devi pertanto rassegnarti ad andare dove nessuno ti conosce perché nessuno ti può invidiare e vedere quale ostacolo per la sua crescita o i suoi disegni diabolici, anzi puoi raccogliere tutte le simpatie del caso.

Ma l’invidia non è un prodotto dei nostri giorni e se in questo periodo pasquale ci pensate, di essa si parla anche ai tempi di Giuda l’Iscariota il quale già privilegiato trovandosi nel “cerchio magico” per eccellenza e vedendo intorno a se tanta mediocrità, vi basti pensare che il “secondo” era un pescatore analfabeta, (anche se ci fu pure qualche eccezione allittrata e un esattore delle tasse), sto povero Giuda non riusciva a mandar giù la circostanza che il “leader” non lo degnasse di uno sguardo e in più qualunque cosa percepisse si sentiva chiamato in causa tanto da dire: “Signore ce l’hai con me”? Quest’ultimo stanco delle sue fisime giunse a tavola a dirgli: “Quello che devi fare fallo al più presto”.

Non avendo possibilità di competere con gli altri perché non cercare di far saltare il banco? Eppure Giuda che motivo aveva di competere con nostro Signore, avevano eguale discendenza divina? Assolutamente no, probabilmente Giuda guardava a Lui e pensava: “ma guarda se questo figlio di un falegname deve avere così successo ed essere ascoltato da tutti!”. Certamente avrà pensato di esser stato sfortunato e di non aver avuto le stesse opportunità.

Quanto fastidio nel vedere quel carisma nel trattare con la gente, quanto fastidio nel sentire quelle “parabole” che lo facevano sentire una persona inutile davanti a tale cospetto e allora ecco che da solo avrebbe potuto mettere in difficoltà tutto il sistema diventando protagonista: “Se ve lo faccio catturare, quanto mi date?” povero Giuda non seppe mai che attraverso di lui si compì il disegno e che preso dal tardivo rimorso, non avendo compreso che di lui avremmo parlato ancora non per il suo gesto, ma per il suo gesto fatto a chi veramente fu “profeta” in patria e oltre e che quei 30 denari per terra mentre penzolava da un albero, non avrebbero dato la felicità a nessuno.

Brutta bestia l’invidia, pessima scelta il tradimento ingiustificato anche quando vi si chiede di scegliere. Buona Pasqua.

Un abbraccio, Epruno

Effetto e Conseguenza

Carissimi,

Non è un romanzo di Jane Austen sfuggito alla vostra attenzione ma è soltanto la mia considerazione settimanale.

Guardo la tv, sento pareri dagli eminenti commentatori e noto sempre più che la gente si lascia trascinare nelle polemiche facendo attenzione all’effetto che si ha davanti agli occhi e non le cause che lo hanno prodotto, ossia le conseguenze che ci hanno portato a ciò.
Sembra proprio (e questo è un effetto dei social) si abbia timore anche davanti all’evidenza ad esprimere una propria opinione in senso contrario per paura di esser additato e messo da parte dal “comune pensare” dalle caste di un “emisfero auto-dichiaratosi giusto e verità assoluta”.

Ho letto quei libri che mi necessitavano e quelli che mi piacevano, ho letto di contro tanti manuali d’istruzione e per tutto quanto non ho trovato lì dentro, mi sono rifatto alla strada, il marciapiede nel quale sono cresciuto e dove non c’era tempo per interpretare le cose, non esisteva il politically correct ad ogni costo perché bisognava stare attento ai “mazzacani” che era poco trendy ma fu “salvamento di vita”.
Quindi guardo le cose e le vedo per come sono e non per come vorrebbero farmele vedere. Ma che opinione pubblica stiamo costruendo?
Non vi viene il sospetto che chi ci guarda da fuori, sfruttando queste nostre contraddizioni interne, si sia ormai convinto che siamo degli idioti da sfruttare, se la ride e in più se ne approfitta di noi? Basta fare la faccia triste che qualcuno qui subito si lascia prendere dalla commiserazione.
Di contro perché devo esser tacciato di razzismo e di poca sensibilità sui migranti se mi chiedo chi gestisce dall’altra parte del canale questa fabbrica di casi umani?

Oppure se rimango basito mentre in TV scorrono le immagini di un “campo nomadi” (ma quanto siamo ipocriti a chiamare nomadi chi è ormai stanziale) nel quale ai giornalisti era stato impedito l’ingresso per documentare una demolizione di un abuso perpetrato e accettato per anni da chi vigila su di noi? Chi ci lucra?

È così che si fa l’integrazione? Può una religione, un’etnia, un costume sessuale, un colore degli occhi dare una deroga al rispetto delle regole del vivere in comune?

Come lo giustifico con coloro a cui chiedo di rispettare giornalmente la legge per mandare avanti la nazione e in qualunque latitudine del paese?
Si può dire per una volta che la parola “regole” non ha un colore, ma che è soltanto un principio di coesistenza civile?
In Italia andiamo avanti perché c’è una percentuale di persone che rispettano le regole, pagano le tasse e mandano avanti i costi sociali dei nostri servizi e c’è la restante parte che fa ciò che cavolo vuole a disprezzo dei primi e sulle spalle dei primi e ha interesse ad alimentare il caos per restare impuniti e gettare la responsabilità del tutto sulla contingenza del momento.
Io ho un sospetto che coltivo da tempo, tutti amiamo la regola e l’ordine nel nostro appartamento, ma già dal pianerottolo di casa per molti ormai tutto diventa lecito e anzi è d’obbligo alimentare il caos purché questo rimanga lontano dal mio uscio di casa. Siamo tutti splendidi con il “posteriore altrui”.

Quanto sopra si può dire o turba la sensibilità e le letture forbite in salotto di qualche struzzo che pontifica ma tiene la testa infilata nel terreno?
Gente, il mondo e sotto casa vostra, non nell’idilliaco paese esotico descritto nelle vostre letture.
Il mio e il nostro cuore è così grande che vorremmo aiutare tutti, ma per far ciò prima ci dobbiamo attrezzare e per attrezzarci occorre che noi per primi si rispetti le regole che ci siamo dati, le nostre regole occidentali e avendo delle regole chiare possiamo venire incontro a chi vuole venire da noi per migliorare la sua condizione nel rispetto e nella condivisione delle nostre regole, senza deroghe, le deroghe gli sgravi ed i condoni hanno già fatto tanto male e in tutti i campi alla nostra terra.

Chi continua nella logica del “cape a casa quantu voli u patruni” o del “come nun ci mancianu dui nun ci mancianu tri” non vuole bene a questo paese e soprattutto si rifiuta di guardare la realtà per intero, guardando soltanto ciò che gli conviene cavalcare per sponsorizzare il proprio egoista interesse, tanto tutto rimarrà lontano dall’uscio di casa propria.

Non date la colpa alla politica. Quello che è il nostro oggi è conseguenza di ciò che c’è stato prima, se reputate un deputato, un consigliere, un sindaco o un ministro, un perfetto idiota non state a chiedervi come fa un idiota ad arrivare così in alto ma chiedetevi chi lo ha scelto, chi lo ha nominato, chi lo ha votato (effetto e conseguenza).

Un abbraccio, Epruno.

Notorietà con o Senza Colombo

Carissimi,

Mi chiedevo qualche giorno fa cosa significa essere noti, chi è noto, come si diventa noti, dove si diventa noti, quando si diventa noti e soprattutto perché si diventa noti.

Mi direte “stai per caso facendo il tuo settimanale esercizio didattico-giornalistico utilizzando la regola delle 5 “W”?”

In parte, ma la mia considerazione nasce osservando una statua di un grande statista del secolo XIX fermo, immobile, a figura intera mentre un colombo è intento sulla sua testa a defecare.

Tanta gloria oggi immobilizzata ad uso di servizio igienico per un colombo, non vi pare assurdo?

Hai fatto tanto in vita tua, la collettività ti ha dedicato un monumento, i giovani di oggi non sanno neanche chi sei se non il personaggio che da nome a quella piazza dove loro si danno appuntamento con i ciclomotori, ma l’attualità è un colombo che a sfregio di quanto sopra sta facendo i suoi comodi sulla tua testa e tu non puoi fare nulla.

Difficilmente oggi si dedicano delle statue a personaggi famosi, nella contemporaneità esistono ormai tante altre opportunità mediatiche per lasciare memoria di costoro ad iniziare dalle foto, le immagini, l’archivio vocale tutti strumenti custoditi in teche e musei nei quali difficilmente un colombo potrà entrare a fare i comodacci suoi.

Presenza mediatica e qualità o capacità, non sempre vanno a braccetto, anzi…

Per presentare ciò che siamo al nostro interlocutore dopo un biglietto da visita rimandavamo al nostro curriculum vitae, ma il nostro curriculum è lo specchio della nostra notorietà?

So che uso oggi se ne fa dei curriculum alle nostre latitudini, tanto che viene con più frequenza richiesto la loro produzione su carta riciclabile ma soprattutto morbida.

Spesso il curriculum passa in secondo piano davanti all’epitaffio o alla lapide, poiché oggi diventi noto soltanto se sei stato vittima o sei stato autore di nefandezze, poiché per i media l’idiota mono-neurale che prende un mitra e in un campus stermina una classe di allievi resterà nella memoria collettiva o rimarrà noto al prossimo più dello “scognito” professore candidato più volte al Nobel che in quella classe insegna.

Ecco una in un solo colpo la risposta al “chi e perché”.

Non è noto necessariamente chi ha merito.

Allora “dove” si diventa noti? Alle prime introduzioni delle pseudo-meritocrazie nei bandi lessi un passaggio che recitava “noto professionista”, ma dove e soprattutto quale era l’intorno nel quale bisognasse essere noto non era chiaro.

Io partecipai asserendo che nel mio condominio ero un noto ingegnere e soprattutto nel mio pianerottolo, ero il più noto, poiché l’unico.

Adesso, “come” si diventa noti? Qui il discorso si complica e certe volte può anche scadere nella volgarità, ma le strade sono da sempre solo due, l’esercizio delle proprie doti e la capacità o disponibilità a prostituirsi (prostituire la propria immagine), si volendo esercitando anche qui le proprie doti.

Quindi accade che tu sia un valido professionista e come cenerentola ti capita l’occasione della vita e diventi noto o ancora più comodamente, nell’altra ipotesi, ti sistemi all’ombra di qualcuno e certamente appena giunge sul display il tuo numero………benché parallelamente sarai sempre noto come colui che è stato all’ombra di, anche se l’ombra nel tempo è andata cambiando.

Ma infine credetemi è il “quando” si diventa noti la cosa più divertente o tragica a seconda dei punti di vista e ve lo dico per esperienza, avrete un curriculum pieno di cose fatte, siete stati impegnati in grandi iniziative, siete autorevoli nel vostro contesto di competenze, ma fin quando non andrete in TV a “parlare di pallone” quali ospiti in una delle tante trasmissioni sportive locali, voi non sarete nessuno!

La consacrazione odierna pari al monumento di una volta con annesso colombo o piccione è la domanda del custode dell’ufficio che riconosciutovi al vostro arrivo vi domanda: “Dottore, domenica che facciamo!”.

Un abbraccio, Epruno

Fatemi Ritornare a Dormire

Carissimi,

questa volta lo dico anche a voi amici miei presi da questa isteria collettiva e a tutti quelli che prima non mi hanno permesso di sognare e poi hanno ucciso i miei sogni fino ad impedirmi addirittura di dormire per riposare.

Ci vuole libertà anche a sognare facendo attenzione a non esser vittime di “sogni indotti” o vittime di “ipnosi” poiché la nostra era più che mai è piena di “maghi, prestigiatori e di illusionisti”.

In un sogno è tutto bello se vissuto dal centro e a 360°, ma se ci spostiamo dietro le quinte e viste le scenografie del set disegnate e tenute in piedi da impalcature, scopriamo che è tutto finto e che le persone plaudenti intorno a noi sono solo comparse pagate?

Quindi o è tutto soltanto un sogno o un reality con una sceneggiatura scritta.

Abbiamo sotto i nostri occhi costantemente i professionisti della costernazione, con le maschere della circostanza per le cerimonie, accompagnati da dame vestite per l’occasione, cavalcatori di disgrazie altrui sempre pronti ad usare le miserie del prossimo per presenziare e addirittura per esistere.

E che dire di coloro che sollevano i problemi e ne lasciano la gestione agli altri nascondendo tutto ciò dietro visioni ideologiche in un mondo in cui tutte le ideologie sono scomparse.

Vediamo giornalmente chi si ostina a decontestualizzarsi cercando di portare “l’orologio della storia“ secoli indietro e che spesso coincide con coloro che continuano ad essere uomini per tutte le stagioni e che non si annoiano di esserci sempre e comunque, non arrossendo nel passare da un punto ad un’altro della “rosa dei venti“.

Tutto ciò non vi da quantomeno fastidio?

Personalmente ho cercato di smuovere le mummie che studiano per l’eternità, mi sono adoperato a difendere i giovani puntando i riflettori su coloro che pensano di non avere “un ciclo” e così facendo impediscono ad altri di iniziare il “loro ciclo” essendo “l’aborto” di nuove intelligenze che non saranno mai nate grazie a costoro prossimi a diventare “concime” per le nuove piante che verranno.

Tutto ciò non vi dà la sensazione di quanto si sia lontani dalla normalità e che non sia vero che le cose siano cambiate in meglio?

Ma ci pensate ai vostri figli?

E intanto tra un sogno e l’altro il tempo passa, tra una promessa e l’altra dimentichiamo pure che la luce che oggi ci illumina e la luce prodotta dalle stelle di mille anni fa.

Avremo avuto un passato, ci illustreranno il futuro, ma che ne sarà di questo presenta che demonizza il passato e invecchia nell’attesa di un futuro?

Vivere il presente è la cosa più difficile perché il presente lo si può vedere, il passato lo si può immaginare, ma è nel futuro e nella sua visione che si può ingannare il prossimo.

Non esiste una “visione” nel presente, se non una “soggettiva visione del presente” e in quanto soggettiva a rischio di faziosità.

E se lo scavalcare il presente attraverso la promozione di un futuro “visionario” sia soltanto la presa consapevolezza di una incapacità a vivere il presente, a governare l’attualità, a fuggire dal presente come coloro che si affidano alle droghe e agli allucinogeni?

Ma se tutto ciò non genera rabbia, dissenso e indignazione, può essere che realmente “non esiste” e sia non frutto di una visione ma addirittura un sogno?

Non arriverò mai a pensare che dietro la negazione dell’affrontare il presente vi sia una lucida strategia e per tanto, affidandomi alla saggezza di Eduardo (“a da passà a nuttata”) non mi rimane che rimettermi a dormire e per favore, abbassate la voce nelle stanze accanto ogni qual volta griderete le vostre cazzate, alle quali sono certo che non crediate più neanche voi, malgrado i copioni e i gettoni di presenza vi impongono ciò.

Allora urlatori di professione, vi consiglio, vista l’ora, di andare a dormire pure voi nella speranza che la prossima volta al nostro risveglio tutto ciò che adesso stiamo vedendo sia stato soltanto la visione di un brutto sogno. Buona fortuna.

Un abbraccio, Epruno.

“Cuscì mi i runi deci euro?”: il “benvenuto” a Palermo

Carissimi
Ho già visto nella mia mente questa “visione”.

E fu così che giunse il giorno in cui il grande aereo si fermo sulla pista dopo che tutte le condizioni di sicurezza erano state allertate e lo spazio aereo sopra la città era stato chiuso.

Il percorso già più volte bonificato avrebbe fatto si che il potente capo di stato potesse scendere dalla scaletta, ricevere i saluti delle autorità e avviarsi verso la macchina scura nel centro di un corteo di auto blindate, se non fosse stato per il fatto che aperto lo sportello questi venisse raggiunto da un ragazzo pelato con un borsone nero a tracolla, che brandendo delle calze da uomo confezionate e gettatone un paio dentro l’abitacolo dicesse: “Cuscì mi i runi deci euro? Mi la fari vuscari a iurnata!” Era una sorta di “benvenuto a Palermo”.

L’ambulante o non sapremmo come meglio definirlo sarebbe stato allontanato di fretta dalla scorta personale del presidente, mentre le imprecazioni del responsabile della sicurezza si sentivano da tutte le radio trasmittenti delle forze dell’ordine impiegate, seguite dalla preghiera di aprire meglio gli occhi e fare in modo che di questo incidente, di quella falla nel sistema di sicurezza non se ne sapesse nulla al di fuori di quel contesto.

Erano lontani ormai i tempi di Mao Zedong, Zhou Enlai, Deng Xiaoping, adesso questi non erano più i cinesi della rivoluzione contadina ma potenti e ricchi neocapitalisti tanto ricchi da comprare qualunque cosa, ma con alle spalle una saggezza millenaria.

Avrebbe viaggiato in direzione di Palermo sapendo che prima di riposare la sera nel suo albergo consono a l’uomo più potente oggi del globo, avrebbe dovuto fare un po’ di cerimoniale mentre la delegazione commerciale al suo seguito si sarebbe intrattenuta con l’analoga locale per discutere di affari, per farsi mostrare le palline colorate o gli specchietti luccicanti, con la presunzione di sempre che chiunque sbarcasse su questa terra fosse soltanto una occasione da spremere, spremere tutta e subito.

Lui nel tragitto in città si sarebbe rallegrato di strade larghe, senza auto posteggiate e soprattutto pulite e regolarmente asfaltate senza buche. Un percorso “da re” ma attenzione a non sbagliare strada o immettersi in qualche traversa fuori dall’ormai collaudato set di Truman.

Avrebbe incontrato il governatore nella convinzione che questi avesse i pari potere di un governatore di uno stato statunitense o di una provincia della repubblica cinese, senza prima aver dribblato davanti l’ingresso della cappella palatina il ragazzo pelato con il borsone nero a tracolla che brandendo delle penne gli avrebbe chiesto “Cuscì mi i runi deci euro?”

Il presidente si sarebbe di certo meravigliato su come avesse fatto costui non solo a superare i cordoni di sicurezza ma a giunger prima di lui dall’aeroporto al palazzo reale, ma poi sarebbe stato rassicurato del fatto che trattavasi del fratello di quello incontrato prima.

Xi sapeva bene che successivamente la sua all’attenzione sarebbe stata fagocitata da quel simpatico personaggio che amava tanto le foto bizzarre e che gli avrebbe ripetuto: “guarda che Palermo è cambiata, ma soltanto da quando sono tornato io”.

Lui avrebbe taciuto facendosi quattro conti in memoria e pensando che se il cambiamento era legato alla persona avrebbe potuto consigliargli di far cambiare la legge per estendere il proprio mandato a vita proprio come aveva fatto egli stesso qualche mese prima.

Sono inoltre certo che fuori dal palazzo di città si sarebbe dovuto sottrarre a richiesta di selfie e di cori di chi dimenticate le “polemiche sui diritti umanitari” avrebbe mostrato cartelli con scritto “siamo tutti Xi Jinping”, mentre afferrato ad un braccio da un ragazzo pelato con il borsone nero a tracolla che brandendo delle calzette gli avrebbe chiesto “Cuscì mi i runi deci euro? Su di seta!”

Certamente accortosi che si trattava di un ulteriore fratello si sarebbe chiesto “quanti ca__ sono questi fratelli” prima di sentirsi rispondere “per fortuna tre”.

Pensandoci la tentazione di uscirsene con soli 30 euro per dare inizio dalla “via della seta” era forte, investendo e dando fiducia a questi tre fratelli, oggi veri “imprenditori di se stessi”, poiché chi sa quanto di contro gli sarebbe dovuto costare la stessa “via” con chi dopo “Cuscì” chi sa quanti milioni di euro avrebbe chiesto.

Dedico quanto sopra al Caro Pino Caruso che diceva che “in Sicilia a parte i Cinesi e i Siciliani avevano dominato tutti” e siccome tutto a sfregio del Gattopardo e destinato a cambiare, anche i Cinesi a poco a poco, “cca minutiddra”, con la pazienza del topolino con la noce, offrendo un “involtino plimavela” dietro l’altro sarebbero entrati in questa apparentemente terra chiusa sempre pronta ad accogliere chiunque dimostrasse forza e portasse denari.

Voi mi direte: “Pecunia non olet”, ma quando mai, ci sono soldi che puzzano già a distanza.

Un abbraccio, Epruno

La “coda”… a Palermo: chi è l’ultimo?

Carissimi

Dalle mie parti la “coda” ha tanti significati, a partire da quello scontato della “coda animale” e all’allusione che su questa spesso si fa per definire una persona furba che “la sa lunga”.

Ma la vera coda che ha fatto terrore per anni era la fila per un turno. Chiariamoci, nulla di british, qui per molto tempo la coda si è fatta a ventaglio, lungi da chiunque di mettersi noiosamente in piedi uno dietro l’altro e da quando si è pensato di dotare le sale d’attesa anche di posti a sedere, è capitato sempre più spesso che una persona anziana, che non poteva sorreggere lungamente la fatica di stare in piedi, rimanesse a turno, pur non restando in fila e da qui l’espressione “la signora/e viene dopo il signore/a in fila” ed ecco che chi sopraggiungeva diceva la scontata frase magica: “chi è l’ultimo?”

La risposta è spesso scontata era detta in coro: “Lei”.

Ma molto spesso la gente è già presa dai troppi problemi e non aveva voglia di scherzare e rispondeva senza ironia: “la signora/e con cappotto qui in piedi”. A quel punto per certificare il proprio turno era di prassi rispondere a voce alta gesticolando e attirando l’attenzione della fila e dei testimoni: “dopo la signora/e ci sono io”.

Oggi, uno schermo indica lettere e numeri e turni diversi e la gente dopo aver preso uno scontrino si siede e attende con gli occhi puntati sul proprio telefonino e a nessuno viene in mente di socializzare con quelle domande di rito di cui sopra. Non ci sono più le risse per lo scavalcamento furbo o involontario del turno, non ci sono più le liti con lo sportellista per la sua presunta lentezza

….. ecco non ci sono più i turni di una volta, quando per qualunque cosa ti si diceva “cresci e mettiti in fila, prima o poi verrà anche il turno”.

Oggi quei tabelloni, quale metafora di ciò che da qualche tempo accade, ci ricordano che attraverso la progressiva differenziazione e possibile trovare le scorciatoie e così c’è chi stara ad attendere dieci minuti e chi lo farà per un’ora poiché gli sportelli di pertinenza fanno operazioni diverse.

Così nella vita, magari sei stato incanalato nella fila sbagliata e attendi mentre accanto a te scorre chiunque, magari hai fatto il turno fin dalla “prima mattina” e c’è chi arriva comodo e sereno e in un attimo ottiene quanto desiderato. Erano belli i tempi delle file nelle quali avevi una certezza ottica dello scorrere e non dovevi studiare farraginose informazioni, certo c’erano anche gli spiccia faccende figli del malcostume che contagiava certi sportellisti, ma anche quello era sotto gli occhi di tutti.

Oggi in questa piatta società non capisci qual è il tuo turno e di contro si è perso il rispetto “dell’ultimo”, fino ad ignorarlo, fino a non pensarci più. Tutti dobbiamo essere primi e vincenti, guai a perdere e per farlo siamo autorizzati ad utilizzare qualunque mezzo, tanto gli altri si volteranno dall’altra parte, certi che al loro turno noi faremo lo stesso.

Non posso contestare chi oggi invece di pensare alle sole logiche del mercato ha voluto pensare anche gli ultimi con strumenti magari non condivisibili, certamente migliorabili, perché la giudico una inversione di tendenza rispetto a quanto stava accadendo. A furia di lasciare indietro gli ultimi, si era perso il concetto stesso di ultimo e tra gli ultimi si sono spesso nascosti e mimetizzati questuanti di professione, evasori congeniti ignoti al fisco, scrocconi e truffatori sommando al danno la beffa per i veri ultimi.

Non sarà cosa facile ed occorrerà uno stato serio poiché per testimonianza diretta, se dovessimo confrontare le retribuzioni in busta paga di professionisti onesti con i falsi ultimi come quelli su descritti che hanno fatto della furberia e del “nero” il loro credo, sono certo che quando affronterò la prossima fila e chiederò “chi è l’ultimo”, mi sentirò rispondere in coro: “Lei!”

Un abbraccio, Epruno

Gli occhiali, non li porto più

Carissimi,

quanti di noi a quaranta anni sono stati costretti a mettere le lenti per leggere da vicino?

Mi ricordo che da più giovane tutti mi chiedevano: “Cosa c’è scritto laggiù che non lo leggo bene? Tu che hai una buona vista prova a leggere….”. Io che avevo una buona vista leggevo e ho letto sempre ciò che c’era scritto.

Poi giunse l’ora dell’Università e il mio professore di disegno mi insegno a leggere con “gli occhi della mente” e tutto quanto seppur bizzarro era anche possibile e iniziai a vedere le cose per come sarebbero state prima di realizzarle.

Giunse il momento in cui non riuscii a vedere più quello che gli altri vedevano e allora riposi gli occhiali visto che l’effetto con e senza di loro era lo stesso. Un handicap? No, anzi una “fortuna” e mi sentii come quell’idiota della barzelletta che aveva dolori in ogni parte del suo corpo che toccava con un dito, primo di appurare dal medico di avere soltanto il dito rotto. Il problema stava negli occhiali, tutti uguali come le divise di “regime” creati per farci vedere le stesse cose.

Fu così che iniziai a cambiare gli occhiali continuamente come si fa con le password (come dicevo prima di riporli sul comodino definitivamente).

Il sospetto mi era venuto nel momento in cui ogni persona che si avvicinava a me per approfondire l’amicizia ed entrare nella mia fascia privata personale protetta, non solo portava gli occhiali, ma mi imponeva lo stesso modello di montatura facendomene dono.

Quanti occhiali dismessi nei miei cassetti, quanta gente non “vedo più” e il mio sollievo è aumentato man mano che il cassetto si riempiva di occhiali dismessi.

Oggi che cammino senza occhiali e sono “cieco” rispetto a tutto ciò che mi vorrebbero fare vedere, mi sento dire di continuo: “ma guarda che bello, guarda come tutto è cambiato, come fai a non accorgertene!”

Credetemi, io rimango come il contadino che grida “viva Aliprando, ma è venuto da Como per non vedere un accidente”.

Non pensate che il mio aver scelto di non indossare occhiali mi abbia giovato, assolutamente, poiché ho finito per diventare un “fastidio” per chi “spaccia questo tipo di occhiali”, qualcuno ha tentato di surrogarne l’uso prestandomi il proprio braccio per camminare senza vedere, ma purtroppo io non sono “completamente cieco” ma “ipovedente senza occhiali” e quindi ho finito per accorgermi che nel camminare non stavamo andando dove volevo io, ma dove voleva lui, senza chiedermelo.

A volte mi chiedo se dovrei usare gli “occhi della mente” anche adesso, a questa età. No, forse non è più tempo per progettare e mi consolo pensando che occorre avere pazienza poiché si dovranno stancare prima o poi di buggerare un “povero incapace come me”, anche e perché la circonvenzione d’incapace è un reato.

Io non ci arrivo e non perché non ci vedo, ma perché quello che riesco ancora a percepire è molto diverso da ciò che mi raccontano ed è molto lontano dalla mia ricerca di normalità.

Un abbraccio, Epruno

Ciò che siamo è sempre dovuto alla storia che abbiamo alle spalle

Carissimi

“Ognuno è un cantastoria, tante facce nella memoria, tanto di tutto tanto di niente, le parole di tanta gente….”, era bella questa canzone di Mario Castellacci, musicata da Franco Pisano che ci faceva riflettere sull’unicità dell’individuo e sprizzava grande sensibilità, qualcosa della quale oggi o ne abbiamo perso la dimensione o ce ne vergogniamo per non sembrare deboli.

Quando la mattina esco da casa per andare a lavorare incontro gli sguardi di tanta gente, gli occhi di tante donne e in un istante impercettibile le squadro nel loro modo di vestire, di presentarsi e immagino che tipo di donna ci sia dietro a questa apparenza, se vi sia felicità e soddisfazione, se vi sia sofferenza, se vi sia una fidanzata innamorata o una giovane madre picchiata, ma una cosa è certa, vi è sempre una grande dignità nel volersi presentare e uscire in pubblico.

Vi è qualche iphone perennemente acceso, ma vi è tanta “solitudine”.

Ho dovuto cambiare in me il concetto di solitudine prima legato all’uomo che naufragava nell’isola deserta e oggi al soggetto immerso in un oceano di persone delle quali il più delle volte non riesce a percepire alcuna vibrazione.

Sono poche le affinità elettive che tra di noi si intrecciano, sono poche le persone che vogliono ancora andare oltre la sola apparenza, vincere modelli e stereotipi e abbandonarsi alle forti emozioni.

Dietro a ognuno di noi, qualunque sia la nostra vita, il nostro mestiere, il nostro ruolo c’è un essere umano con il suo bagaglio di emozioni e la sua sensibilità, basta saper andare oltre e superare i primi steccati difensivi, i primi pregiudizi.

Mi vide e il volto Le si accese venendo verso di me con un grande sorriso e facendomi una festa alla pari di una vecchia amica che ti incontra in un posto inatteso e abbracciandomi e baciandomi mi disse “ciao come stai?” Io risposi preso di soprassalto in maniera banale e stupidamente “e tu che ci fai qua?”

In pochi secondi contestualizzai il tutto, in quella strada sotto casa mia, davanti alla vetrina di quell’ottico, io mano nella mano con la mia fidanzatina del momento, Lei che aveva lasciato un attimo le mani dei suoi due bambini per salutarmi e l’amica che l’accompagnava.

Mi presentai con la sua amica e volli fare partecipe in quella surreale situazione chi mi accompagnava, dicendole:  “ti presento”… invitandola (come si fa in questi casi d’imbarazzo) a dire il nome di chi non si conosce… aggiungendo “una signora che lavora dove mi alleno ogni pomeriggio” e Lei sorridendo aggiunse, con molta ironia “in un certo senso… “.

Dopo quei convenevoli, ci risalutammo continuando per la nostra strada. Lessi nei suoi occhi non solo la dovuta complicità ma l’apprezzamento.

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Ricordo a distanza di quarant’anni quell’episodio con tanta simpatia, non avevo fatto null’altro di quanto facevo e faccio ancora oggi, un gesto di cordialità con tutte le persone che riempiono e condividono la mia giornata, sia da protagonista che sullo sfondo, come comparse vivendo vite nelle quali anche io finisco per stare nello sfondo come una comparsa.

Da quel giorno non la vidi più in quell’angolo, a quell’incrocio, in compagnia di tutte quelle signore più grandi di lei (forse più esperte) che attendevano passaggi fugaci di pochi minuti che le riportassero allo stesso punto di partenza. Ogni giorno la stessa vita, cosi come il nostro gruppo di atleti che facevano fondo negli stessi viali della Favorita, nei quali si consumavano vite parallele, incontri clandestini.

pretty woman

Non sapevo nulla di Lei ma Le ero diventato familiare grazie al giornaliero ciao al passaggio del gruppo, tra l’ultimo di questo serpentone, il più piccolo, il più pulitino e la più giovane di quelle signore in attesa…

Di cosa avrei dovuto scandalizzarmi? Perché non avrei dovuto rispondere a quel saluto giornaliero con tanta cordialità? Ciò che mi veniva spontaneo allora senza conoscere nulla della vita, l’avrei fatto e a maggior ragione oggi dopo esser cresciuto per strada a giocare con il pallone sui marciapiedi, gli stessi spesso utilizzati da chi ha “deciso”, ma “deciso” è parola molto forte e spesso inappropriata, di…

Non ho mai giudicato, non mi sono mai fatto abbindolare dai pregiudizi, non mi sono mai sentito migliore di nessuno, ma sono stato sempre consapevole che la sceneggiatura di questa vitaccia non la scriviamo noi.

errori

Chi siamo e quanti errori ognuno di noi ha compiuto e compirà, quante cose sbagliate, quante cose potevano esser fatte meglio, mi auguro almeno che anche Lei abbia potuto avere una vita migliore.

Sempre più spesso c’è chi manda a quel paese ogni forma di morale per il “Dio denaro” accettando compromessi, chi più, chi meno, per vivere, in molti casi sopravvivere. 

In altrettanti casi sopravvivere in schiavitù, perché dietro a una consistente “offerta” c’è necessariamente una “domanda”… e che domanda.

Ognuno ha tanta storia” è vero, ma abbiamo paura o reputiamo un investimento poco fruttuoso l’andare in profondità per conoscere realmente i nostri interlocutori, avendo l’accortezza di non fermarci alla fotografia dell’istante e a tentare di comprendere realmente che ciò che siamo è sempre dovuto alla storia che abbiamo alle spalle.

Un abbraccio, Epruno

Non sono mai Bianche

Carissimi

Chi sa quante volte era ritornato su quel posto con la mente.

Ci tornava costantemente rivivendo la stessa mattinata, sempre la stessa, per cercare dove quella volta aveva sbagliato.

Aveva poco più che trenta anni e lavorava da sempre, non ricordava quasi più di esser stato bambino, ma oggi era lui ad avere dei bambini da crescere e da mandare avanti e una moglie a casa che non lavorava, correggo, non aveva un lavoro esterno, ma faceva la casalinga e accudiva ad una casa e una famiglia tirando avanti con il minimo per sopravvivere, anche lei una eroina dei giorni d’oggi.

Ogni mattina, mentre fuori era ancora buio, lo stesso rito, in quella piccola cucina, i bambini ancora a letto, il caffè che deodorava l’aria e loro due, seduti al tavolino a fare conti.

Il tempo di afferrare il pacchetto con quello che sarebbe stato il suo pranzo e poi verso una nuova e ripetitiva giornata in cantiere.

Quante volte questa scena, con qualunque tempo, farsi trovare all’angolo per il padroncino e i colleghi che passavano a prenderlo con il doppio cabinato.

Ma quella mattina percepiva inconsciamente che c’era qualcosa che non funzionava, lo aveva fatto presente a chi di dovere ma la sua denuncia non aveva suscitato null’altro che una semplice risposta del datore di lavoro: “Se ti piace è così se no te ne stai a casa e ti vai a cercare un lavoro da un’altra parte.”

incidenti sul lavoro

Il signor Mario no, non avrebbe mai risposto così a una tale richiesta di un suo operaio, lui sapeva cosa significasse la sicurezza in un cantiere avendo perso un giovane figlio che lavorava con lui per un incidente mortale.

Il signor Mario (Zio Mario) era stato il suo primo datore di lavoro, gli aveva insegnato il mestiere e gli aveva sempre detto che le cose sul lavoro dovevano esser fatte bene e che se c’erano tutte queste leggi e controlli ci doveva essere un motivo.

Lo Zio Mario aveva la sua piccola azienda edile in regola, pochi operai regolarmente e giustamente pagati compreso di contributi e ogni spettanza, tutte le certificazioni a posto, tutte le qualificazioni regolarmente possedute.

Ricorda ancora il giorno in cui in lacrime Zio Mario gli dovette comunicare che era costretto a licenziarlo e chiudere la ditta dopo tanti anni e sacrifici perché non ce la faceva più ad andare avanti onestamente visto che molti dei suoi concorrenti riuscivano a fare ribassi d’asta incomprensibili.

Dovendo tenere tutto in regola e avendo spesso denunciato ciò Zio Mario si era pure guadagnato la nomea di “malacaratteruso e rompiscatole” e oltre al danno la beffa, la nomea da parte dei suoi concorrenti che lavorasse male ed era inaffidabile.

Pensava a ciò mentre nel doppio cabinato raggiungeva il cantiere odierno e nello stesso abitacolo il suo collega Mahmud dormiva appoggiato al finestrino. Mahmud come Kadir o Fahrid, sapeva di loro a malapena il nome e soltanto i loro sorrisi, ma non conosceva la loro storia che non poteva essere diversa da quella di tanti altri disperati che erano venuti a cercare fortuna dalle nostre parti.

In cantiere li chiamavano i fantasmi perché erano addestrati a scomparire nel momento in cui si fosse materializzata una figura sconosciuta.

incidenti sul lavoro

Se ci fosse stata quella tavola fermapiede ed un corretto parapetto su quel ponteggio, se Mahmud avesse avuto le scarpe antinfortunistica e la cintura e non quelle ridicole scarpe di ginnastica rosse, se quei caschetti non fossero stati caschetti giocattolo, se il datore di lavoro li avesse formati e informa… troppi se.

Mahmud quel giorno non avrebbe dovuto salire su quell’impalcato e quando per scherzare con Kadir si distrasse un attimo non percependo il movimento della gru e perdendo l’equilibrio…

Accadde tutto in un istante, un volo di quindici metri ma fatale, poi l’ultimo ricordo di quelle scarpe da tennis rosse su un cumulo di ghiaia, rosse come il sangue di Mahmud, rosso come il sangue di tutti, ma in contrasto con il pigmento della sua pelle, nero come quel lavoro e come Kadir e Farid, scomparsi subito dopo.

Chi lo sa se lui si ritenesse più fortunato costretto da allora su una sedia a rotelle e salvato soltanto dalla sua vecchia cintura ereditata dalla dotazione dello Zio Mario, ma non dal caschetto distruttosi dalla caduta di un tubolare che gli arrecò i danni permanenti.

Continuiamo a chiamarle morti bianche, ma spesso sono ancora frutto di coscienze sporche che di bianco non hanno mai avuto nulla.

(Ogni riferimento a fatti e a persone è puramente casuale… tutto il resto… )

Un abbraccio, Epruno

Il ragazzo con la valigia

Carissimi

Il ragazzo guardava alla Tv i vecchi documentari “accelerati” in bianco e nero che rappresentavano storiche testimonianze di gente povera, costipata nei bastimenti, piangere alla vista della Statua della Libertà, prima di sbarcare ad Ellis Island ed entrare in quella terra che avrebbe dovuto cambiare le sorti della loro vita.
Gente povera, gente ignorante, a volte anche gente che voleva ricominciare da capo o fuggiva dal delinquere nella propria terra.

emigrati in america, new york, statua della libertà

Era l’epoca delle valigie a volte di cartone rese ancora “più sicure” da giri di spago tutt’intorno non perché le loro chiusure non bastassero, ma perché la prudenza non era mai troppa e queste immagini sempre più nitide si sono ripetute anche nel dopoguerra e nei periodi delle grandi migrazioni interne sul suolo italiano, da Nord a Sud.

Il ragazzo pensava che la sorte toccato ai propri avi sarebbe potuta invertirsi e migliorarsi attraverso una unica decisione, studiare, laurearsi, ambire a diventare la classe dirigente della propria terra, allontanarsi da un destino ormai millenario, attraverso l’istruzione e la competenza specialistica.

Non erano più i figli di chi aveva patito la fame e la guerra, ma i lori nipoti, i figli di quei figli che avevano fatto ben altre “rivoluzioni intellettuali” come il mitico “’68” o addirittura i nipoti di questi ultimi e cioè i figli “dell’Erasmus”, ragazzi che avevano imparato a conoscere il mondo viaggiando.
Il ragazzo pensava a ciò, in quell’ora scomoda del mattino, mentre seduto sulla panca della sala d’imbarco aspettava il suo aereo, avendo lasciato dietro l’ultimo varco, la famiglia dopo uno straziante abbraccio e tante lacrime. Non partiva per la guerra, ma sapeva che non sarebbe mai più tornato se non per le vacanze nella terra che lo aveva visto crescere e custodiva le sue radici.

Ironia della sorte, pensava ai fagotti di poveri stracci degli emigranti del secolo scorso corredati dal bagaglio di grande ignoranza e guardava il suo odierno zaino con all’interno un moderno personal computer costantemente collegabile al web e all’accesso a tutti i “saperi” in esso riversati, ma la sua sorte e la direzione di quei migranti di allora erano le stesse.

Non era più l’istruzione a distanza di un secolo a far da discriminante nel mettere le valige in mano ai giovani. Era l’ottusità di certe politiche e l’incapacità di questa terra nel costruire un futuro migliore a spingere i giovani ad andare via.

Era la soppressione delle opportunità di seri “apprendistato” (la scomparsa dei maestri) a finire per riversare questa marea di giovani laureati (come le tante tartarughine appena nate) verso un mare pieno di pesci più grandi pronti a mangiarli.

Erano i profittatori a far scappare i giovani, erano coloro che sfruttando la necessità, pretendevano le prestazioni con la presunzione di pagare dopo o addirittura non pagare … coloro oggi convinti che il lavoro sia diventato gratuito.
Il ragazzo nell’attesa dell’imbarco guardava nei monitor le immagini di quelle altre migrazioni oggi all’onore della cronaca fatte di disperati di qualunque colore sul gommone del canale di Sicilia o di Sudamericani in marcia verso il confine Messicano con l’America, guardava tutta quella gente in cerca di una sorte migliore che andava verso muri eretti per impedirne o contenerne i flussi.

Lasciare la propria terra è brutto per tutti.

Il ragazzo pensava che nella ricerca di una sorte migliore c’era forse un punto in comune con tutti costoro anche se era consapevole che le sue chance erano di gran lunga migliori di questi poveri disgraziati, i più fortunati dei quali sarebbero finiti per fare nel mondo occidentale ciò che da anni non ci degniamo più di fare, o addirittura per fare vite disperate nelle nostre strade, preferendole di gran lunga a vite lasciate nei luoghi d’origine.

Il ragazzo sapeva che una laurea gli avrebbe certamente riservato grosse soddisfazioni e lo avrebbe realizzato in contesti oggi pronti e strutturati all’accoglienza delle intelligenze.

Oggi toccava a lui sognare, come toccò un tempo ai luminari e gli ingegneri dell’est, gente di grande cultura, “confinati nei paesi del blocco sovietico prima della caduta del muro” che vivevano vite molto modeste con stipendi che garantivano i mezzi di sostentamento essenziali e che desideravano di venire nell’Occidente, o come le giovani coppie americane che alla nascita del proprio figlio, iniziavano a creare un fondo di risparmi per poterlo mandare all’università e sognavano di fare la differenza nella sua vita.

Lui questo titolo di studi lo aveva già e lo portava insieme con sé nel suo zaino e non si riusciva a capacitare di come l’essere umano non avesse imparato nulla dalla storia e come tutto fosse pronto a ripetersi, come in un giorno della marmotta, in una perenne “scalata al ribasso”, in una perenne guerra tra poveri.

Un abbraccio, Epruno.