Archivio per la categoria: Epruno – Il meglio della vita (ilsicilia.it)

Noi che vedevamo in bianco e nero

Carissimi,

accendevo la TV in rigoroso bianco e nero dell’ultima generazione che dava la possibilità di ricevere addirittura un secondo canale, ma per poter passare da un canale all’altro dovevo necessariamente alzarmi e pressare l’apposito pulsante posto di fianco sullo schermo.

Le dimensioni delle TV erano pressoché uguali a meno dell’involucro esterno e soprattutto le trasmissioni iniziavano a metà pomeriggio, interrompendo quell’immagine fissa del mitico monoscopio RAI, mandando il Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini e dando inizio ai programmi, udite, udite della “TV dei ragazzi”, altro che “Amici degli Amici”, “Masculi e Fimmine” o Tv del dolore di Barbara e quant’altro e i bambini, dopo aver fatto i compiti, potevano deliziarsi con Giocagiò, Palan, Patitù, la Fata Muccona, Ciuffettino e tanta produzione dedicata ai ragazzi con fior di autori alle spalle.

Inutile dire che dopo il programma di prima serata (che iniziava in prima serata e non alle 21.30), un film alla settimana (e dovevano passare 20 anni dall’uscita nelle sale per poterlo trasmettere), teatro, cultura, varietà del sabato, alle 23.30 circa, con l’ultimo notiziario, tornava il monoscopio, Rossini e tutti a nanna.

A proposito di quella che chiamiamo oggi “prima serata”, bisognava dire che questa era preceduta dal “Carosello”, un geniale prodotto pubblicitario che diveniva esso stesso l’evento e non la fastidiosa interruzione di una visione per trasmettere spot promozionali.

Ogni quadro di questo prodotto legava storie, filmati, animazioni con l’ausilio di importanti testimonial pubblici dell’epoca dietro la valente maestria di grandi registi televisivi e cinematografi. Da qui la mitica frase che anche chi di voi non fosse ancora nato all’epoca avrà certamente sentito, “i bambini andavano a nanna dopo il Carosello” ed era vero.

Per non parlare del calcio in TV al quale non bisognava dare appuntamento nell’agenda come si fa ai giorni d’oggi grazie SKY ma ci si limitava verso le 19.00 circa alla visione del 2° tempo della partita più importante della domenica (perché solo la domenica dopo pranzo si giocava, quali anticipi, posticipi, ore di pranzo e turni infrasettimanali), un solo cronista (“il cronista”) senza analfabetici commenti in sovrapposizione di ex calciatori e la domenica passava.

Andava meglio prima? Non è questo lo scopo del mio discorso, ma soltanto di far conoscere alle generazioni delle TV commerciali cosa ci fosse prima e tentare di comprendere dove ci siamo persi. È ovvio che si trattasse di una offerta unica di stato e culturalmente ben differenziata, con una ratio e un certo ordine e diciamolo pure, una certa qualità.

Vogliamo parlare del dibattito politico? Allora esisteva la “tribuna politica”, un asettico studio con un tavolo, un conduttore giornalista esperto di politica (io rammento Ugo Zatterin, ma non era il solo) e difronte una tribunetta dove stavano seduti giornalisti, ripeto, esperti di politica (e non gli onniscienti personaggi delle arene e dei talk televisivi che parlano di tutto, su tutto, senza una specifica competenza, ma una sola maestria nella provocazione). Il programma andava avanti con una domanda e una risposta e non esisteva la frase “io non l’ho interrotta è per questo non mi interrompa”, non esisteva lo starnazzare, il parlarsi sopra oppure il vezzo di odierni intervistatori schierati che al seguito delle risposte, aggiungono con tono calante la loro considerazione, per arrogarsi l’ultima parola, come se il protagonista del dibattito politico fosse l’ancor-woman e non il politico intervistato.

Bene, erano noiosi, forse sì, ma in noi c’era l’attesa di testare la capacità oratoria di certi leader politici dell’epoca e perché no, la maestria di giornalisti con la “G” maiuscola.

Oggi piango per certi “politici” costretti a faticose turnazioni per garantire la loro presenza in tutti gli spazi mediatici e televisivi che finiscono per diventare “personaggi di spettacolo” prestandosi a piacionerie, a giochi in studio e a quant’altro per raccogliere consensi.

Certe volte penso a quella generazione di cappottoni pesanti e grigi, seri, a volte misuratamente ironici, ma autorevoli. Ma quando mai un La Malfa (padre), un Aldo Moro, un Berlinguer, un Almirante avrebbero accettato di giocare in Tv uscendo fuori dal loro ruolo pubblico ed istituzionale, permettendo come si fa oggi di farsi ridicolizzare e sbeffeggiare in quasi tutti i programmi dove in assenza di ispirazione nei loro testi, si scherza solo e unicamente di politica, come se questa fosse una cosa sulla quale si possa giocare.

Ai tempi, l’unico che sconfinava su questi temi e con grande misura e geniale ironia era Alighiero Noschese e voi miei cari giovani amici, abbiate la curiosità su internet di saperne di più su questi uomini, su quei periodi e scoprirete che “il colore” veniva lasciato alla nostra fantasia, ma soprattutto che ci sarà un motivo per cui questa nazione si è ridotta così.

Un abbraccio, Epruno

Chi sa quanto vale l’essere umano?

Carissimi,

oggi abbiamo soppiantato il modello dell’uomo forte con quello dell’uomo ancora più cinico, il vincente, colui che deve ottenere il risultato a qualunque costo, deve fare profitto passando sopra tutto e tutti e quei tutti spesso siamo noi.

Abbiamo dimenticato il “valore” dell’essere umano, ecco perché guardo con attenzione tutte le vicende che di esso parlano, le ormai omni-presenti notizie sulle migrazioni, ma sto molto attento a non perdere di vista il pallone (che volete nell’animo sono ancora un giovane centrocampista che gioca a calcio) e mi costerno, mi commuovo, ancora più di quanto facevo prima, nell’incontrare la “povertà umana”, l’emarginazione ma sono rigorosamente attento a non farmi prendere per il naso dagli aspiranti “vincenti” odierni che ne vogliono sfruttare le disgrazie altrui, come dicevo prima, passando su tutto e tutti.

Odio l’ipocrisia e sono più realista del re (come si dice), credo nella statistica perché sono di estrazione matematica e so che non si può vincere sempre a meno di truccare il gioco e quindi non mi fido dei vincenti per professione che vanno alla caccia di queste battaglie per mettersi alla testa per fare parlare soltanto di sé stessi, affinché lo spettacolo continui,per lasciarlo al proprio destino quando non sarà più redditizio.

Se vi affidate ai mezzi di informazione con attenzione avrete notato che in tv e sui giornali, un esponente politico viene fuori con una esternazione sulle coppie di fatto, come sui migranti o sui vaccini o sulla violenza negli stadi, o sull’uscita dell’euro per non parlare di redditi di cittadinanza e abolizioni di legge Fornero e si va avanti nel dibattito contraddittorio per mesi, fino alla fine della legislatura, mandando in video nei talk i professionisti del litigio dialettico che sanno parlare con “competenza” di tutto.

Ma come fanno a sapere tutto, io per primo, quando si parla di ingegneria a seconda dell’argomento chiedo conforto e parere ad altri prima di esprimere la mia “posizione”, costoro no, manifestano certezza, costruiscono verità e alla fine di questi grandi dibattiti, spesso non si trovano soluzione al problema.

E se anche questa volta come Pierino ci venisse di alzare il ditino per chiedere se in realtà a certa gente gliene freghi realmente di ciò di cui si discute? Credetemi, tutto ciò che è umano, trova soluzioni, spesso in cinque minuti, il continuare a “menar il can per l’aia” e solo un modo per perdere tempo.

Mi auguro solo che mentre c’è chi spesso specula su questi dibattiti che hanno il solo compito di contrapporre le masse e creare consensi, ci siano tanti altri di quei signori che non vanno in televisione e partecipino alle commissioni parlamentari o stiano nelle sedi dei loro prestigiosi incarichi a lavorare (e non limitarsi a fare opinione), perché questi temi, spesso grandi temi, non sono i soli problemi che come collettività noi abbiamo e ciò non è “benaltrismo”, ma è realtà, perché parallelamente alle “grandi battaglie” una collettività va governata nella contingenza giornaliera, non bisogna distrarre le masse dal problema.

Personalmente sono convinto e lo ripeto sempre di più che questo non è un paese serio, nel tempo è diventato sempre più disorganizzato nel senso di comunità ma si è trincerato dietro la grande informatizzazione e l’attraversamento di fibre per la comunicazione che ad oggi hanno soltanto il compito di creare il controllo totale sull’individuo e di raffinare le tecnologie belliche, altro che ritorno ad un auspicato “umanesimo”.

Se le migrazioni non rendono, se i conflitti nascono in terre dimenticate dove non c’è petrolio o risorse da predare, una volta vendutegli le armi, i gommoni, gli scafi, ma a chi volete che in questo mondo odierno interessi la loro sorte?

Un abbraccio, Epruno

Ha da passà a nuttata

Carissimi

“Ha da passà a nuttata” diceva Eduardo e nel dirlo parafrasava la circostanza che per certe malattie sarebbe stato necessario attendere le ventiquattro ore per avere la certezza di esser fuori pericolo.

Oggi io mi sento di interpretare questa frase in più modi e per farlo ho bisogno di tutto il coraggio che un “opinionista prestato” deve avere, consapevole che tornato al suo naturale giornaliero ruolo, queste sue “opinioni” gli possano costare caro.

Il mio “Amico editore” ha scelto di mettere sempre la mia faccia, qualunque sia l’avatar a corredo dei miei pezzi e così facendo ha voluto evidenziare la facoltà che il sottoscritto, “uomo libero” come da profilo Facebook, ha di poter dire in libertà ciò che pensa poiché usando un’altra frase gergale, “il sottoscritto ha già dato!”

Pertanto, dopo aver sentito le notizie, visti i filmati, letti i commenti, anche quelli a mio parere “vigliacchi” di chi non si firma e grazie al web sputa in anonimato veleno in calce agli articoli di chi “ha una opinione”, alle ventiquattro ore, voglio dire la mia e in questa tribuna virtuale di grande ascolto (e non attraverso un profilo fb dove ci scegliamo gli ascoltatori).

“N’amu a dari na calmata!” L’espressione seppur in palermitano penso che sia compresa finanche dai miei amici valdostani o altoatesini (dobbiamo darci una calmata).

La nottata è trascorsa e anche dalle mie parti ha fatto abbastanza freddino, sia per chi ha dei precari sistemi di riscaldamento nel conforto delle proprie casette, figuratevi per coloro che senza fissa dimora dormono per strada e a maggior ragione per chi a mare attende un permesso a sbarcare dopo esser stato soccorso da una ONG.

Con ciò voglio dire che nell’Italia “vera” da sempre “tutta coste e tutto cuore”, il tentativo di farci schierare davanti ad un dibattito politico sul dare soccorso ai migranti, sull’aiutare gli ultimi, non ci ha diviso e non ci potrà mai dividere e a maggior ragione da queste parti, le mie parti, dove si dice “cape a casa quanto voli u patruni” cioè “la capienza della casa è stabilita dalla volontà del padrone di casa”.

Ci potremo trovare non d’accordo sulle simpatie nei confronti dei “testimonial” di questo dibattito, perché se siamo persone attente e di memoria, non potremo mai dissociare le idee e le posizioni contingenti di costoro, dalla loro storia personale e politica e a seguito di ciò, ognuno sarà libero di prendere le parti per l’uno o per l’altro, ma non dobbiamo mai dimenticare il “merito” della questione.

orlando e salvini

Basta dare lezioni di moralità a chi non la pensa come noi.

Diamo merito ad alcuni sindaci di aver sensibilizzato l’opinione pubblica, approfittando del ruolo, e di aver sollevato il dubbio sulla ipotetica incostituzionalità o la giustezza di parte di una legge, ma la disobbedienza è una parola molto grossa che seppur da una posizione di partenza ipoteticamente corretta finirebbe per farci passare ad una condizione di torto.

Buttarla sull’odio personale per distrarci dal problema è molto scorretto e credetemi i facinorosi, stanno da entrambe le parti, tutte le parti e quindi se vogliamo stare insieme e vivere in democrazia, nessuno può stare al di sopra delle regole e le leggi seppur sbagliate si rispettano e parallelamente nelle giuste sedi istituzionali ci si adopera per correggerle.

Quindi grande attenzione per gli “ultimi” che giungono da noi via mare, ma mi auguro che mentre c’è chi si è dedicato anima e corpo a questo dibattito, parallelamente ci sia chi pensa agli “ultimi” che già sono qua, agli “ultimi” che qui sono nati e cioè i “penultimi” e se mi permettete per dirla alla “Troisi”, anche a molti professionisti come il sottoscritto che conducevano una vita dignitosa e che oggi si sono guardati alle spalle e si sono accorti di essere in piena zona retrocessione.

In periodi pre-elettorali mi viene il sospetto che se abbiamo voluto usare la piazza surrogando o sconfessando il lavoro delle istituzioni, lo abbiamo fatto solo per contarci sapendo che anche i numeri nelle piazze, con una efficace propaganda, si costruiscono, così come si scelgono le stesse piazze, i locali, le riprese, i punti di visione, in funzione della partecipazione di massa che vogliamo dimostrare e in fine per dirla come un compianto emerito accademico ed erudito locale all’inizio di ogni sua lezione, per riconoscere gli allievi aficionados: “cominciamoci dall’esame delle facce”.

Un abbraccio, Epruno

Cu è fissa si sta a casa!

Carissimi,

Continuava a tenermi fermo l’avambraccio sinistro mentre mi parlava e continuava a cadenzare quel fastidioso “mi ha capito?”. E io pensavo tra me e me: “ora lo picchio!”. Ma quando mai, non sono stato mai una persona violenta, benché da pacifico tollerante se portato ad un carico di rottura chi sa che cosa avrei potuto fare, quale esplosione violenta e inusitata, quale reazione sproporzionata mi avrebbe potuto sollecitare quel suo “mi ha capito” al posto di un più educato “mi sono spiegato”.

E intanto l’aver messo le mani di sopra, il subire quella violenza tattile durante la discussione stava per farmi esplodere, mentre dovevo mantenere il sorriso delle circostanze e fu in quel momento che decisi di scendere sul suo campo da gioco, accettando regole e codifiche, uscendomene con un semplice: “d’altronde”.

Il mio interlocutore in pochi minuti, mi aveva spiegato con una logica idiota che il vero idiota in questo momento ero io, continuando ad usare una serie di frasi fatte, fin quando utilizzo quella peggiore che io avessi potuto sentire e cioè: “cu è fissa si sta a casa!”.

L’ho riempito di pugni, fino a fargli uscire sangue dal naso finché il mio raziocino non mi riporta dal sovrappensiero alla realtà, facendomelo abbracciare e baciare ipocritamente, celando tutto il mio disprezzo, prima di augurargli “Buon Natale e Buon Anno a lei e alla sua famiglia e soprattutto mi stia bene”.

Non vedevo quell’omino da venti anni, dai primi periodi in cui condividevamo l’ufficio, io giovane neo assunto, con un bel titolo di studio e tanta voglia di cambiare il mondo e lui scafato mezza manica emblema di un sistema e di una burocrazia ben stigmatizzata in tutti i luoghi comuni sul tipico impiegato della pubblica amministrazione.

Io pronto a mettere a disposizione dopo un concorso la mia professionalità per cambiare il mondo ad iniziare dal pubblico impiego, visto che per la famiglia nata nel dopoguerra il posto pubblico e la pensione erano un punto fermo del credo e che non bisognava rischiare perché per il futuro non si poteva mai sapere.

Lui senza alcun titolo, entrato per chiamata diretta a seguito di frequentazioni di corsi saputi in cerchie ristrette dagli amici degli amici, poi diventato anche sindacalista e portato avanti da amicizie politiche trasversali. Lui che spendeva tutto il suo tempo ad ostentare i suoi privilegi e a dileggiare di contro i miei studi, ricordandomi che era inutile che mi “annacassi” tanto lì dentro eravamo tutti uguali, poiché loro erano la massa e costituivano i numeri, quelli che portavano i voti ed io di contro facevo parte di un élite (fuori) di quattro gatti, le cui esigenze non sarebbero interessate a nessuno. Del resto l’avevo scelto io di fare il pubblico impiegato da laureato e quindi dovevo avere chiaro che il mio punto di riferimento non sarebbe mai stato Pier Luigi Nervi, ma Fantozzi e che anche io mi sarei dovuto cercare “lo zio”, le cosiddette “aderenze” perché “cu è fissa si sta a casa!”.

Bene, ne ho viste cose in questi venti anni che Voi umani ……….. ho visto costui andare in pensione con il massimo livello, in anticipo, dopo aver fatto entrare a deliziare la p.a. anche i figli e con lo stesso metodo.

Ci sarebbe da scrivere un libro che avrebbe solo l’effetto di tediare o incattivire gli animi di chi si chiede perché in Italia siamo arrivati a questo punto, ma è chiaro a tutti, “i fissa ristammu a casa” e oggi in giro e nei posti che contano sarà raro a qualunque livello trovare “un curriculum”.

Siamo rimasti a casa” e abbiamo permesso che la mediocrità dilagasse incutendo, e qui sta la beffa, “l’artificiosa paura indotta attraverso i media” che potrebbe andar peggio e quindi meglio non lamentarsi, accontentarsi di quel poco, consentire che attraverso “leggine di una stagione” si aprano finestrelle che “allarghino la forbice”, impediscano “l’uso dell’ascensore”, anche in assenza di incendio e specialmente se la sua marca è “ascensore sociale”.

E voi pensate che uno come me, o tanti come Voi possano scegliere ad esempio l’Ing. Murfy e le sue leggi? Mai e poi mai e nella certezza e non più speranza che l’anno nuovo porti salute, lavoro e felicità, intanto “sorridi domani andrà peggio!”.

Un abbraccio, Buon 2019, Epruno

Creare è roba da Ingegneri

Carissimi,

ne sono certo, non può che essere un Ingegnere.
Me lo immagino nel momento della “madre di tutti gli appalti” quando in una enorme stanza luminosa e bianca, seduto al centro di un grande tavolo di riunione, attorniato da i suoi “alati collaboratori”, mentre la musica di sottofondo era sempre quella di cori gloriosi (a Lui piaceva lavorare sentendo musica), voltarsi verso sinistra e sfogliando le innumerevoli tavole piene di dettagli, chiedere: “che te ne pare?”
E sentirsi rispondere: “Sei un Dio!”
E replicare: “Lo so!”
E voltarsi poi verso destra e chiedere: “E tu perché non parli?”
E sentirsi rispondere: “Si è bello, ma non possiamo darlo in appalto ad affidamento diretto, in modo fiduciario, ad intuito persona.”
E replicare: “comando Io e si fa come dico Io e poi ho già pronto un pacchetto di 10 leggi speciali e semplici che costituiranno il regolamento d’attuazione. Una sorta di fascicolo del “fabbricato”.
E sentirsi rispondere: “Eh sì, ma le leggi vanno interpretate…”
E Lui replicare infastidito: “Ma tu collabori con me o vinisti ppi criticare? Per chi lavori?”
E sentirsi rispondere: “Faccio l’avvocato del diavolo!”

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Fu allora che nella sua grande saggezza si rese conto che il suo “perfetto progetto” avrebbe dovuto fare i conti con tante mozioni e tanti di quei soggetti che si sarebbero messi di traverso, ma per pronto accomodo dettò al suo dittafono:“ricordarsi di creare gli avvocati e i giudici”.

Così si affretto a promulgare le 10 leggi speciali che sapevano di “comandamenti e che sarebbero risultati necessari per realizzare “quell’infinito appalto” in sei giorni, perché il settimo aveva già preso impegni ed intendeva andarsi a riposare.

Mentre il collaboratore di sinistra si complimentava quello di destra continuava a fargli notare che bisognava stabilire una pesante penale se non si fosse ultimato il tutto il sei giorni ed inoltre che non si sarebbe potuto iniziare senza l’aver nominato un coordinatore per la sicurezza visto i siti da realizzare erano sparsi per “tutto l’universo” e quindi che era probabile l’uso di più imprese.

Creare è roba da Ingegneri

A quel punto Lui si volto verso il collaboratore alato sulla sua destra e gli disse: “a questo punto mi hai rotto le scatole (non so se usò proprio questo termine poiché Lui era uno di classe) vai all’inferno!”

E con un gesto lo incenerì. Gli dava fastidio che seppur fidato collaboratore costui non avesse compreso che intendeva fare tutto da solo, altro che subappalti.

E fu così che il Primo Ingegnere creò tutto ciò che ci circonda e ben oltre, se ci riferiamo a tutto quanto ancora non conosciamo.

Certo debbo dire che come tutti i progettisti ebbe anche Lui le sue preoccupazioni, come quando stanco di sentirlo lamentare e chiamare ogni cinque minuti, approfittando di un suo momento di abbiocco (buggerandolo dicendo di avergli tolto una costola) per dare “compagnia” all’Uomo, si inventò la Donna e già dai primi discorsi scoprì che “ne sapeva una più del diavolo”, però come faceva sempre, “sinni priò” comprendendo di aver creato la natività e la vita.

presepe

La vita, i figli, quanti pensieri e non nascondo che quando diede in adozione il Suo a quella “brava coppia” raccomando a Lui, Giuseppe il falegname (un po’ “più spuntuliddru”) di dare un mestiere al ragazzo, non appena avuta l’età, si dovette dispiacere tanto quando il giovane la sera tornava tardi per frequentare quel “gruppo di scappati di casa” essendosi buttato in politica.

La politica certamente non l’aveva inventato Lui e lo costernava il pensare che Suo Figlio sarebbe dovuto andare incontro ad un brutto destino. Fu così che un giorno di venerdì, l’arresto per reati politici e a seguito di un tradimento, glielo giustiziarono pubblicamente in mezzo a “due ladroni”.

Lui che aveva progettato tutto alla perfezione, non aveva fatto i conti con l’unica parte imperfetta del Suo progetto, l’uomo e le sue debolezze, ma pensando alla Donna e al miracolo della natività a lei affidato si consolo pensando che ogni qualvolta una creatura viene al mondo è gioia e speranza che questo attraverso la sua opera, prima o poi, possa diventare migliore e per ciò…

Buon Natale. Un abbraccio, Epruno.

El Barbun e il Presepe

Carissimi,
Non so voi ma io il mio presepe ce l’ho costantemente davanti agli occhi tutto l’anno e non ho necessità di farlo per le festività natalizie.

Scendo di casa e davanti la chiesa ho una costante “natività” quale allegoria di una giovane madre che con qualunque tempo e stagione, alle sette del mattino viene lasciata con il suo bimbo sugli scaloni della chiesa da un moderno San Pietro con il suo vecchio Mercedes.

Si, oggi Pietro ha la barba e un sorriso con tanti denti d’oro e non fa il falegname e non voglio neanche sapere che mestiere fa e se ha un mestiere, ma certamente non ha tempo da perdere per stare nel presepe a guardare la moglie e il bambinello, anzi certe volte la sera, quando ubbriaco viene a riprendersi la sua “madonna” si incazza pure se questa non porta a casa almeno 50 euro quale profitto della commozione umana, naturale davanti il “presepe”.

E che dire dei pastori in adorazione, un gruppo di “pazzi” che si intrattengono a discutere davanti la “mangiatoia” su discorsi tra i più vari e strani con coloro che passano.

Uno di questi molto educatamente ogni volta che mi vede mi saluta ossequioso: “buongiorno dottore”. Io gli sono grato per la sua gentilezza poiché ho abitato per anni in un palazzo dove la vicina casa non mi ha mai salutato ne risposto ai miei saluti e spesso vedendomi arrivare mi sbatteva il portone in faccia.ù

Un altro soggetto più in là, dipinge con tanta passione, quadri che sarebbe ingiusto definire banali o orribili se non avessi visto in questi anni “opere definite contemporanee” nei musei che ambirebbero a somigliare a quelle del mio amico “pazzo” non raccomandato politicamente per esporre in gallerie.

Nel mio presepe, non c’è l’acquaiolo ma c’è l’ambulante con la sua “lapa” e l’ombrellone che vende verdure e peperoncino e nella stagione adatta cuoce anche le caldarroste.

E tutto si perpetra per tutto l’anno, una miseria umana lontana dai telegiornali e dai dibattiti televisivi.
Ogni tanto senza attendere l’epifania arrivano i “re magi” con sacchi pieni di vestiti dismessi e allora quando Giuseppe la sera ritorna in compagnia del figlio maschio, devasta in maniera rituale questi sacchetti cospargendo nel marciapiede tutti i vestiti dopo aver selezionato e preso ciò che gli può tornare utile.

Giuseppe è un uomo pratico, anche se all’oro che già possiede nella sua bocca, l’incenso che sostituisce con pacchetti di sigarette senza filtro, avrebbe gradito al posto della mirra la birra. E così davanti a questa moderna mangiatoia c’è un via vai di “pastori” molto attenti a tutto ciò che succede nel territorio, ma ciò che in questi tempi mi ha colpito più di tutto è una capanna, un alloggio improvvisato di cartone distante o meglio tenuto a distanza da questo presepe moderno, posta nella rientranza di una vetrina, dove sosta un uomo di non stimabile età, con un barbone scuro, capelli ricci scuri e profondi piccoli occhi neri, anch’essi scuri, immerso in un mondo a se, lui non parla o meglio non l’ho mai visto parlare con nessuno, ma capisco che anche il presepe lo ha allontanato.

Costui seduto per terra passa il tempo ad osservare e contare i suoi tesori disposti davanti le sue gambe piegate, qualche tappo metallico, una pietra, monetine e una bottiglietta d’acqua, nulla, non possiede nulla, non ti chiede soldi ma se lo guardi ti paralizza con un dolce sorriso, specchio di chi sa quale storia e di chi egli fu prima di finire vagabondo per strada.

L’altro giorno incrociando il suo sguardo gli ho chiesto scusa, lui non sapendo di che in silenzio come sempre mi ha sorriso, avrei voluto dirgli il perché di quelle scuse, ma avrei dovuto spiegargli che credevo veramente di cambiare il mondo e le cose sbagliate e forse son finito per esser sbagliato anche io, utile idiota come tanti che si voltano dall’altra parte, che vengono usati per perpetrare ingiustizie motivandole con: “una volta sola che danno vuoi che faccia!”

Grande rispetto per chi travolto dalla vita non accetta compromessi e manda il mondo a fanculo come l’Amico “Barbun”.
Un abbraccio, Epruno.

Abbiamo molto da imparare

Carissimi,

“Nzu”! Suono quasi gutturale che usciva con una smorfia da chi quasi a significarvi che “nenti sacciu e nenti sapia” voleva chiudere al nascere qualunque tipo di conversazione e tu sapevi che anche se ti fossi perso era certamente giunto in Sicilia.

Quella era la terra dipinta come un eterno granaio con il suo giallo predominante, il frastuono delle cicale, il sole caliente, le donne con gli scialli neri oggi assimilabbili a “burqua succinti e peccaminosi” e gli uomini con la coppola che “picca parravanu”, le scritte sul muro che erano come tazebao occidentali che soppiantavano quelle di regime ancora visibili in qualche piccolo centro dell’entroterra inneggianti al “libro e al moschetto” e andavano oltre quelle centenarie del “curri quantu vuoi ca cca t’aspiettu” e da monito ancor più che subliminale ti rammentavano che “cu è orbu e surdu e taci, campa cent’anni in pace”!

Gioco, partita, incontro” diremmo oggi.

Invece oggi in Sicilia si parla, si parla tanto a volte si parla a sproposito a giudicare da quanto non solo rimane registrato grazie alle cimici che per fortuna (a seconda dei casi) non sono più quelle che infestavano i materassi, ma addirittura rimane per sempre nell’etere grazie a quanto si legge e si vede nei “social” (inglesismo che significa “ma i cazzi tua nti po’ fari mai?”).

Si parla a sproposito, perché non si parla con chi si dovrebbe e con chi si potrebbe. Accade così che la moglie sospettosa di tradimento invece di parlare a quattro occhi con il marito, seduti difronte con la vecchia “cucchiara di legno” bene in vista sul tavolino quale monito …… va parra con altre persone ed ecco che si scoperchia un vaso di pandora di gente in tutt’altre vicende affaccendati le quali a buona ragione (e non regione) si chiedono: “ma niscisti da casa ppi cunsumari a mia?” O ancor meglio: “prima di mettere mano o fierru, parramu”.

Ecco, “parramu” (parliamo) ma non a sproposito e fuori luogo, come chi ti vede solo perché scambiate ogni tanto davanti a un caffè quattro convenevoli e crede di sapere tutto della tua vita e sentenzia “e certo, tu SEMPRE ……..”. Credetemi per quel “sempre” se fossi stato una testa calda penso che sarei stato in grado di perdere la mia libertà.

Uno è “ppi i cazzi so” come si dice da queste bande, “avi i so problemi” e deve “contrastare” con il cretino di turno che trova piacevole venirsi a fare “un giro” nella tua vita come se tu non avessi altro tempo da perdere.

Eppure oggi siamo diventati anche questo, a tal punto da farci rimpiangere certi stereotipi del passato, come Don Felice, lo zio di un mio collega che in 5 anni di università non gli sentii mai pronunziare verbo mentre con grande mio imbarazzo mi osservava con quegli occhi scuri seguendo i miei passi.

Oppure come il nonno di un mio amico fraterno che in occasione di un compleanno di quest’ultimo, davanti alla novità del karaoke invitato in occasione del suo turno a cantare, rispose: “e unni simu a questura?

Tempi che furono, viene strano pensare che questa terra all’epoca silente abbia prodotto letterati Nobel eppure anche lì di gente strana si trattava, che so prendiamo Quasimodo con il suo “ognuno sta sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.” Basta!

Che avrà voluto dire? Tanto! Ma gli sono bastate poche parole centellinate e non come oggi fanno tanti “quaquaraquà” per evocare Don Mariano che parlano, parlano, parlano…….

Si, stiamo cambiando anche noi alla faccia del Gattopardo e questo ci fa paura ammettiamolo, ci stiamo globalizzando nel linguaggio e stiamo perdendo la nostra insularità comportamentale il tutto a danno di coloro che un domani dovranno sbobinarci …….

Un abbraccio, Epruno.

Siamo ai Titoli di Coda

Carissimi, “Aiga ae corde!” Dal ligure-ponentino “Acqua alle corde”. Cosi grido il marinaio ligure Benedetto Bresca quel giorno del 10 settembre 1586, durante l’innalzamento dell’obelisco situato al centro della Piazza San Pietro a Roma, incurante del silenzio assoluto imposto da Papa Sisto V, pena la pena di morte (a tale scopo c’erano già sul luogo la forca ed il boia per chi avesse trasgredito), perchè era giusto allertare tutti del pericolo.

Il lavoro, presentava gravi difficoltà. L’obelisco pesava 350 tonnellate ed era alto 25 metri, per tale motivo erano stati spesi complessi calcoli, impegnate impalcature, argani e carrucole, 800 uomini e 140 cavalli.

L’obelisco era quasi a posto quando si videro le funi surriscaldarsi pericolosamente, con il rischio che prendessero fuoco con l’inevitabile caduta del monolite per terra. Allora nel gran silenzio si levò una voce temeraria a gridare: Daghe l’aiga ae corde! “Dai acqua alle corde”. Per fortuna il consiglio fu seguito subito dalle maestranze con ottimo risultato.

Solo uno che “sinni sintia” come un marinaio capitano di mare poteva sapere che le corde di canapa si scaldano per la frizione degli argani e inoltre si accorciano quando vengono bagnate.

Come immaginerete il capitano Bresca fu subito arrestato, ma Sisto V che era un altro che “sinni sintia” invece della punizione gli diede come ricompensa larghi privilegi per sé e per i suoi discendenti e una lauta pensione.

Sisto V era uno tosto, più tosto di qualunque governante odierno, eppure capì, accettò colui che disobbedendo ad un suo editto aveva evitato un grave danno. Nessuno degli “yes-man” di allora aveva avuto il coraggio di parlare e se non ci fosse stato l’incosciente di turno chi sa come sarebbe andata a finire.

Oggi non è che sia molto diverso, certo non c’è la pena di morte, ma c’è il rischio per qualunque “yes-man” di uscire fuori dai “cerchi magici”, ma se come probabilmente lo era il capitano Bresca, si fosse uomini liberi, basterebbe poco per avere il coraggio di dire: “guardate che molte delle nostre regole sono ingiuste, a volte dannose, molto spesso idiote, ma anche se fosse chi dovrebbe parlare e gridare “acqua alle corde”?

La classe dirigente che attornia i governanti di turno? Ma voi sapete come queste classi dirigenti degli ultimi anni si sono selezionate?

Certamente non come avveniva al tempo, quando Anche i “burosauri” erano rispettabilissimi perché oltre al cappello politico avevano di contro una lunga gavetta nelle loro organizzazioni e arrivavi al vertice a una veneranda età avendo conosciuto tutti i gradini della carriera.

Oggi ci si sciacqua la bocca con il termine “meritocrazia” per contrapporlo a metodi più cinici e meno ipocriti quali quelli anglosassoni dello spoils system, di fatto, chi vince si porta con se le sue persone di fiducia, mettendo ai vertici gente da loro segnalata, che ha fatto per loro la campagna elettorale (stiamo parlando di paesi anglosassoni, non fatevi cattivi pensieri) e tutto ciò non scandalizza nessuno perché quando il politico perderà, andranno tutti a casa compresi gli staff e la classe dirigente di riferimento.

Qui abbiamo la “meritocrazia”, tanto per intenderci un sistema dove Dracula gestisce “la banca del sangue”, il tutto con criteri meritocratici affidati al mentore di turno, pensate che noi qui continuiamo a fare concorsi interni per avanzamenti di carriera dove si chiede ancora il voto di laurea, titoli accademici, master, seconde lauree dando a questi un peso molto maggiore di ciò che tu ha realmente fatto operativamente nel tuo lavoro.

Personalmente reputo che la fase della valutazione dei titoli accademici in un concorso, si concluda all’atto dell’assunzione, dopo venti anni di lavoro, andrebbe valutata la carriera lavorativa.

Nessuno mi convincerà mai che ciò sia corretto, è ovvio che non si può cantare e portare la croce contemporaneamente, chi ha lavorato (seriamente) nello stesso periodo, non ha potuto trovare il tempo per fare l’accademico, il “masterista” o il corsista poiché sarebbe stato tutto tempo tolto alla produzione e se ciò è stato permesso, mi sa tanto che qualcuno abbia voluto già selezionare alla base chi avrebbe dovuto fare carriera, senza curarsi di quella giusta concorrenza che si tenterà di garantire un domani in un concorso interno. Non sento nessuno lamentarsi di ciò, neanche chi dovrebbe tutelare i lavoratori.

Malgrado ciò sono certo che ci sarà chi mi dirà: “Ma è la legge!” E io rispondo “acqua alle corde”, cioè “la legge è sbagliata”, è soltanto idiota e ingiusta, e se vi sta bene così, tenetevi questa classe dirigente. È il lavoro e l’esperienza sul campo che ti conferisce autorevolezza ed è anche grazie a questi cattivi regolamenti e alla circostanza che nessuno si lamenti che ormai siamo ai “Titoli”, si, ma “Titoli di coda!”

Un abbraccio, Epruno.

Ma ci siamo rimbecilliti?

Carissimi

“Ne dites pas à ma mère que je suis dans la publicitè… Elle me croit pianiste dans un bordel” (Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello).

Così disse Jacques Séguéla giornalista e scrittore francese fondatore di una delle più grandi agenzie pubblicitarie del mondo.

Avevamo una società che con tutti i suoi limiti e i suoi difetti svolgeva le sue funzioni istituzionali con una certa serietà, chi doveva dirigerci aveva quanto meno una esperienza e anzianità di settore.

Si arrivava in alto avendo fatto una certa “gavetta”, vi erano delle regole non scritte che ci consigliavano di fare un certo percorso costruttivo che permetteva un certo avvicendamento con l’età e perché no, diciamolo, anche un minimo “ascensore sociale”.

Studiavamo perché dovevamo prendere il “pezzo di carta” e la scuola era una istituzione seria e rispettata e non era una circostanza legata al denaro, perché i maestri, gli insegnanti, i professori hanno guadagnato sempre poco come tutti i servitori dello stato.

Poi un giorno abbiamo voluto copiare modelli stranieri, dell’est e dell’ovest personalizzandoli con la nostra “paraculagine” locale, abbiamo messo attraverso la politica, i sindacati, le organizzazioni di vario genere la dirigenza dell’Italia nelle mani dei mediocri, spesso dei cretini, di coloro che non ci arrivano e pertanto devono semplificare, abbassare l’asticella, massificare decidendo che eravamo “tutti uguali” (non solo agli occhi di Dio) a prescindere dalla nostra storia formativa, dai “veri titoli” e non da quelli “artificiali” comprati.

E dire che questa nazione ci aveva permesso una istruzione obbligatoria e poi attraverso una scuola ed una università statale con maestri seri, preparati e molte volte “figure eccellenti della nostra società” aveva dato la possibilità a chiunque di arrivare in cima.

Sento parlare di volere abolire il valore legale del titolo di studi, vogliamo diventare americani, vogliamo costruire una società tutta basata sul denaro, sul successo, sul modello del vincente a tutti i costi, dove arrivano in cima solo i ricchi perché possono comprare e le famiglie fin da prima di fare figli iniziano ad indebitarsi per poterli mandare un giorno all’università.

laurea

Abolire il valore legale di una laurea dopo che abbiamo fatto di tutto per sminuirla di significato, mi fa ripensare a Séguéla tanto da dire oggi insieme a tanti altri colleghi: “Non dite a mia madre che faccio l’ingegnere… Lei sa che suono il piano in un bordello”.

Si, vorrebbero farci credere che oggi una laurea non vale più nulla, che abbiamo fin qui scherzato e che forse è più dignitoso lavorare in un bordello, ma non come prostituta, peggio, come colui che suona il piano per intrattenere i clienti, con una autostima peggiore di quella di un cuoco costretto a friggere patatine da McDonald’s.

Avremmo dovuto essere più “albionici” in ciò, poiché avremmo dovuto difendere le nostre tradizioni, la nostra unicità, le nostre diversità (senza che ciò comporti necessariamente parlare di nazionalismi) nell’aprire i nostri confini agli altri e nel metterci insieme subendo soltanto le impostazioni anglosassoni di euro codici (spesso scritti quali collage di norme) che finivano per soppiantare norme scritte bene sulla base di un tradizione normativa che affonda le radici nel diritto romano.

No, non perdonerò mai chi ha voluto soppiantare nel mio ambito professionale l’impostazione e la chiarezza normativa e applicativa di un “Regio Decreto” durato cento cinquanta anni con un “codice degli appalti” omnicomprensivo, frutto del vezzo dei testi unici anglosassoni ed in continua revisione e mutazione.

Oggi ci siamo ridotti a copiare quanto di fatuo viene da fuori. Continuiamo a tentare di innestare giovani tradizioni che non ci appartengono.

Continuiamo a festeggiare una festa celtica quale Halloween (se mi permetterete io continuerò ad onorare la ricorrenza dei “muorti”).

Halloween

Importiamo le “artificiali” sfilate del“graduation day” con cappelli di cartone (mi dispiace se qualche amico si offenderà, ma io continuerò a preferire il vestito elegante e la cravatta della laurea e al cappello di cartone, prediligerò sempre la “feluca”).

Continuiamo a celebrare le giornate del frenetico acquisto del Black Friday dove ci si picchia per accaparrarsi il TV di ultima generazione a prezzo super scontato e dire che il Black Friday (“venerdì nero”) negli Stati Uniti segue il “giorno del ringraziamento” e dà inizio alla stagione degli acquisti.

Ma da noi, ringraziamento di che? Dice che avevamo “le pezze nel cu..?”

Ma che paese stiamo diventando? Vogliamo diventare così “banali”? Facciamolo.

Dopo aver tagliato le nostre radici sacrificandole all’altare della globalizzazione, non lamentiamoci se ci scopriremo sempre più simili a modelli societari più cinici, più competitivi e sempre meno un grande popolo solidare, sempre meno “italiani brava gente”, lasciando indietro gli ultimi, sia in terra che in mare.

Un abbraccio, Epruno.

Perchè ci sono oggi tanti “scrittori”?

Carissimi

Mi sono chiesto di frequente: “perché si scrive?”

Cosa porta l’individuo a prendere la penna o oggi a sedersi davanti la tastiera e scrivere?

Non è di certo un effetto dei nostri tempi, la necessità di contrastare in un’epoca fortemente mediatica il rischio di isolamento fisico con la necessità di comunicazione, poiché fin da quando l’uomo ha imparato a scrivere egli ha sentito la necessità di lasciare traccia del suo pensiero spesso attraverso opere che hanno attraversato secoli e civiltà rimanendo attuali.

Charles Bukowski

Sono personalmente convinto che ognuno abbia una storia da raccontare che reputa meritevole di esser conosciuta e tramandata, non sempre la propria storia, a volte trattasi della testimonianza di momenti felici da evocare, il più delle volte di dolori da elaborare e spesso non condivisi, ma tante volte la necessità di dire la propria e prendere posizioni in un dibattito che non avverrà mai.

Penso che vi sia una forte necessità di ricostruire le comunità, le piccole cerchie di “gente semplice” nelle quali vivere sentimenti forti e “vecchie abitudini” come la riscoperta del narrare, il riabituarsi all’ascolto, al silenzio mentre qualcuno ci sta parlando, l’abbassare i toni della voce, il non parlarci di sopra. Se a tutto quanto ciò ritroviamo la pazienza dello scoprire cosa di prezioso ha da raccontarci il nostro interlocutore certi che il valore delle affermazioni non sta nella valenza assoluta di ciò che si sta ascoltando, ma dall’importanza che ciò può anche avere per chi ci sta comunicando, solo così possiamo lasciare i giudizi ad un secondo momento, senza necessariamente auto-eleggerci dal nostro scranno a custodi radical-chic della verità.

Ernest Hemingway
Ernest Hemingway

A volte ascolto storie pregne di una forte umanità, di semplicità spesso anche banale, raccontate con tanta partecipazione anche per il solo motivo di aver trovato qualcuno disposto ad ascoltarci, ma che mi danno la scansione di un animo e di una sensibilità apparentemente sepolta dietro una cortina difficilmente valicabile appartenente ad una persona chiusa, timida o sola.

In un mondo dove si costruisce una verità soltanto per avere avuto la forza di gridare più forte di tutti gli altri o per averla urlata da un punto materiale più alto e visibile per tutti gli altri (che so …. Un balcone, un palco) perché cadiamo nell’errore di credere che solo pochi hanno il diritto ad avere una opinione o di provare delle emozioni?

Il foglio bianco per molti è rimasto il modo per vincere determinati complessi e forse si scrive anche perché è rimasto l’unico modo per poter fare un discorso compiuto senza essere interrotti o mantenendo attiva la soglia dell’attenzione.

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Curzio Malaparte

Ecco perché non necessariamente tutto ciò che si scrive diventa libro anche se come tale è stato edito per trovare consenso tra gli amici ed i parenti e finire in bella mostra nella nostra libreria e in cospicue copie in un cartone custodito nelle nostre soffitte, cantine o garage e ci deve andare bene se non ci hanno chiesto dei soldi per pubblicarlo.

Scrivere un libro è qualcosa di molto più complesso,impegnativo e che passa da vagli e revisioni, incontri e da un grosso lavoro da parte di una figura preziosa quale quello dell’editor.

Non tutti i diari personali e le memorie (per fortuna) diventano libri ma di contro non è detto che anche i diari personali non abbiano un valore importante anche se non diventeranno opere letterarie, spesso serviranno per comprendere i costumi storici, le abitudini o addirittura conoscere nell’intimo determinati personaggio anche solo nell’intorno familiare.

Quindi anche se non siete grandi narratori o stimati accademici non abbiate paura di esser banali nell’affidarvi al foglio bianco per lasciare traccia del vostro pensiero, abbiate solo l’accortezza di farlo con un corretto linguaggio e dalle nostre parti in italiano.

Un abbraccio, Epruno.