Real Teatro Santa Cecilia: “Leggendo Epruno 10 – L’Amicizia”

Sarà il Real Teatro Santa Cecilia di Palermo ad ospitare oggi, a partire dalle ore 18.00, il reading letterario “Leggendo Epruno 10 – L’amicizia”.
Lo spettacolo giunto alla sua decima edizione si caratterizza come racconto corale a più voci, legate insieme da un unico narratore che fa da filo conduttore. Ogni anno gli scritti hanno trattato un tema diverso, quest’anno le letture saranno tutte basate sul tema dell’amicizia. Un’antologia di brani redatti dall’ideatore dell’evento Renzo Botindari che da oltre 20 anni ha raccolto e scritto pensieri sui temi più disparati. Personaggio principale delle storie è Epruno, un carattere ed un nome inventato per caso dopo un episodio capitato allo stesso Renzo.

“Epruno nasce circa 20 anni fa e diviene incontro settimanale di una comunità web dove ogni venerdì inviavo i miei scritti e le cose divertenti trovate online, poi il format negli anni passa anche attraverso la carta stampata e la radio per rimanere incontro annuale a teatro. Questi eventi riescono a mettere insieme gente di estrazione diversa, che si ritrova piacevolmente per ascoltare e riflettere sui temi che ci riguardano da vicino nella vita quotidiana”.
Lo spettacolo composto da undici quadri legati narrativamente pone allo spettatore delle domande sull’esistenza dello stesso concetto di amicizia che può variare a seconda dei contesti, delle situazioni di subordinazione, del sesso, della giustizia, del tradimento, della mancanza e della perdita.

“Epruno nasce circa 20 anni fa e diviene incontro settimanale di una comunità web dove ogni venerdì inviavo i miei scritti e le cose divertenti trovate online, poi il format negli anni passa anche attraverso la carta stampata e la radio per rimanere incontro annuale a teatro. Questi eventi riescono a mettere insieme gente di estrazione diversa, che si ritrova piacevolmente per ascoltare e riflettere sui temi che ci riguardano da vicino nella vita quotidiana”.
Lo spettacolo composto da undici quadri legati narrativamente pone allo spettatore delle domande sull’esistenza dello stesso concetto di amicizia che può variare a seconda dei contesti, delle situazioni di subordinazione, del sesso, della giustizia, del tradimento, della mancanza e della perdita.

Alessandra Costanza

(https://emmereports.it/2020/10/25/real-teatro-santa-cecilia-il-reading-leggendo-epruno-10-lamicizia/)

“Ma Perché non Farsi le Giuste Domande?”

Io ho un grosso vantaggio, io sono un utente come voi e gioco dove gli altri lavorano e questo era anche il grande dispiacere e fastidio della sindrome del ginecologo, ben nota.

Io vedo la tv come voi, leggo i giornali come voi e quindi in questo momento di cosa volete che vi parli?

Non c’è stata alcuna speranza in tutti i miei amici redattori di portarmi a parlare di politica, anzi quando mi hanno “costretto” a rivelare l’identità dello pseudonimo ci sono rimasti pure male, poiché si aspettavano che io potessi parlare male di questo o di quello.

Le “5 W” sono da sempre l’ispirazione del buon giornalista, ma io non sono giornalista, non sono neanche la Doris Day di “10 in Amore” e non sono neanche il nefando “Clark Gable direttore del giornale travestito da allievo giornalista”, io venendo colpito sulla strada di Damasco o meglio venendo miracolato nel mio percorso giornaliero con il mio scooterone nelle “Real trazzere di Palermo”, mi prendo di ispirazione e scrivo.

Si io scrivo e in un appuntamento come quello mio del venerdì sul web, non posso scrivere di cronaca, semmai posso fare una critica ironica su cose che nella settimana mi colpiscono.

Scrivo e non posso parlare di politica, in primis perché ho studiato e so cosa significava politica nel mondo ellenico e questa che chiamiamo politica non ci assomiglia minimamente e quindi non posso parlare di qualcosa che non è.

Di contro, come vedete spesso, ho un approccio alle domande nello stile filosofico, perché ho studiato filosofia ma non sono un filosofo e poi se esser filosofi vi porta ad esser sempre incazzati come a Cacciari perdonatemi, ciò non mi appartiene.

La satira politica benché Crozza la usi ancora per me è morta già ai tempi di Noschese ed è stata dissepolta per poi “vrudicarla arrieri” con il “Bagaglino” e Oreste Lionello. Questa satira colpisce coloro che indenni dalle notizie della cronaca politica rimangono incastrati nel format politico satirico, per cui se un illustre sconosciuto che fa politica non lo conoscevi attraverso i telegiornali te lo ritrovi servito nel dopo cena.

Ciò mi lascia qualche perplessità, come tutti i programmi politicamente schierati che vorrebbero fare satira squilibrata. No, non mi piace fare satira dovendo sfottere servilmente “non personaggi” per farli diventare personaggi. Non mi piace parlare di cose serie in modo spropositato facendole diventare notizie e commenti e magari nascondendomi dietro uno pseudonimo.

Potrei parlarvi di sport, ma purtroppo non sono all’altezza. In gioventù mi sono dilettato quando c’era ancora qualcosa da descrivere, ero grande estimatore di Beppe Viola o Gianni Brera e mi sarebbe tanto piaciuto inventarmi nomignoli come “l’abatino” o dire come Ferretti “c’è un uomo solo in fuga nella nebbia e la sua maglia è bianco celeste”, frase che mi commuove ancora al solo ripeterla, per la sua profonda poesia, in una frase questi grandi giornalisti raccontavano tutta una storia e la mia immaginazione volava.

Io, se non sto attento e mi distraggo un attimo nella mia strada rischio di cadere come il ciclista colombiano al Giro d’Italia.

Lo stesso dicasi su chi fa vignette blasfeme facendo secondo me il doppio errore di parlare di qualcosa che non si rispetta e non si condivide e di conseguenza offendere tutti coloro che in ciò credono.

Dico, con tanti argomenti proprio di ciò devi parlare? Difenderò la tua libertà di espressione ma non puoi non mettere nel conto come direbbe Epruno: “e poi dici ca unu s’incazza!

Ma è di patto che mi devo cercare gli argomenti per essere notato, neanche se fossi sindaco di una città metropolitana.

Dire: “perché non parli come tutti di Coronavirus?

Diceva il compianto professore di matematica alle medie: “e che mi chiedi, io u panillaru fazzu!?”

Aveva ragione, poiché io faccio un mestiere che ai giorni d’oggi è bistrattato e ambirebbe ad avere il successo del panellaro, poi di contro non sono neanche laureato in “tuttologia” così come esimi esponenti della TV e rischierei di dire cose più banali di quelle che dicono loro. Però ….

A me c’è una cosa che in questi mesi di reclusione e di tabelle “m’acchiacca” e mi chiedo dall’inizio:

Ma comu cazzu ci vinni di nvintarisi in laboratorio una mostruosità del genere” se è vera questa ipotesi, perché credo poco a chi la vuole buttare da tergo al “pipistrello untore di altre specie animali”  …. in primis perché vi sfiderei a trovare con facilità orifizio del pipistrello e poi provate voi a stare sotto sopra tutto “stu tiempu”.

Un abbraccio Epruno.

Cosa è “Leggendo Epruno” (L.E.)?

Il giorno dopo a 24 ore di distanza, ritrovate le prime forze dopo una lunga preparazione provo a dire cosa penso.

Leggendo Epruno è pur sempre un “prezioso messaggio” che come ogni cassetta di “Mission Impossible”, se si accetta la “missione”, si autodistrugge dopo 5 secondi dall’averla ascoltata.

E’ un “buon ristorante a conduzione familiare” dove si mangia bene e si paga poco, dove io il primo, da gestore mangio ed invito non solo le persone vicine, le persone che conosco, ma anche quelle che reputo possano apprezzare quello che prepariamo.

L.E. rappresenta una sorpresa per chi si lascia convincere ed spesso ancora qualcosa da spiegare (anche a chi lo fa da anni) che ne percepisce “la magia” e non rinuncerebbe mai ad esserne parte.

L.E. è qualche cosa che ha aperto una “finestra temporale”, “una breccia” nella sensibilità di qualcuno e prima che questa si chiudesse ha depositato un seme, un punto di vista, una provocazione, prima che costoro scappassero via o ne prendessero le distanze per tutto ciò che sta nella natura umana dei rapporti.

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“Vistutu Comu i Cristiani”

Se vogliamo vivere in mezzo alla gente dobbiamo condividere certi basilari comportamenti, ricordo mia Madre quando cercavo di fare lo stravagante nel vestire (parliamo di piccolissimi peccati veniali) mi fermava davanti la porta e con quei consigli lapidari che solo le madri sapevano dare, mi inchiodava alle mie responsabilità e non vi nascondo che il dialetto condiva di maggiore efficacia il messaggio meglio di qualunque pubblicitario dei giorni d’oggi:

Unni stai iennu?” (interrogativo che chiedeva “dove stai andando”).

Va vestiti comu i cristiani!” (Qui non c’era più l’interrogativo del dubbio ma si passava direttamente all’imperativo che accompagnava una così detta “disposizione di servizio” che imponeva di “andarsi a vestire in modo cristiano”, inteso come modo convenuto).

Mia madre con quel “cristiano” non ne faceva un fatto di religione, poiché per Lei la religione era solo una e non ci potevano essere competitor sulla piazza, come oggi accade con maggiore informazione.

Ma il momento più efficace era quando chiedeva: “A genti, chi n’avi a pinsari?” (La gente che ne deve pensare). Immaginate un adolescente che aveva mille complessi di suo, per il fatto di essere secchissimo (non ci credereste ma ero secchissimo), di essere prematuramente orfano, che era costretto ad uscire e guardare gli sguardi incrociati casualmente della gente e costantemente credere che quella gente stesse pensando a me, avesse il pensiero su come mi fossi vestito, su cosa facessi, cosa pensassi e se aggiungiamo l’aggravante che parlando l’amico quello ti dicesse: “mia nonna mi dice che siamo degli scanazzati a stare costantemente per strada a giocare, invece di stare a casa e finiti i compiti, stare a guardare la televisione”.

C’era di rimanere di sasso principalmente ad avere tutti quegli occhi della gente di sopra, quell’esser giudicato “scanazzato” termine ancora scognito per me, l’esser paragonato ad odierni ragazzi delle serie televisive modello Gomorra con le loro piazze di spaccio i loro omicidi, le loro rapine ……. Ed io “mischinu di mia” (povero me) ero impudentemente uscito con un paio blue-jeans e stavo andando all’appuntamento con gli amici davanti la chiesa, dove saremmo rimasti seduti a chiacchierare di pallone, di film, di ciò che era accaduto a scuola.

Ma anche in quella naturale attività stavo a guardare gli occhi della gente che passava e nella mente si alimentava il cruccio, chi sa che cosa sta pensando me, giovane “scanazzato” che è pure seduto nei gradini della chiesa e non sta a casa a vedere la televisione come tutti i bravi ragazzi ed è pure vestito con i jeans.

Per non parlare delle giovanili simpatie per le ragazzine che con i genitori la domenica andavano in chiesa (loro si vestite come i cristiani) ed immaginare già di toglier mano a qualunque corteggiamento per non ingenerare storie dolorose alla Romeo e Giulietta, tra una giovane ragazza di buona famiglia “vistuta comu i cristiani” e un giovane certamente senza futuro, “scanazzato” e vestito con i jeans e che non guardava la TV dei ragazzi (moderno Che Guevara rivoluzionario dei costumi e contro la comunicazione di massa):

La mia cara Mamma aveva ragione, partendo dal principiò di “poveru si, ma sfardatu picchì” (questa i miei amici nordici dovranno andare a cercarla) figlio di un ceto medio dignitoso che doveva puntare anche sulla cura della propria immagine in un momento social e in una età nella quale emergevano la “forbice sociale”.

Aveva ragione Lei tranne per un particolare non di poco conto, alla gente non gliene stava fottendo nulla di me di come vestivo, presa come era dei veri problemi della vita, delle insoddisfazioni, dei tradimenti, della perdita del lavoro, di una figlia che gli dava problemi e non soltanto per il modo di vestire, ognuno nella sua mente macinava pensieri, come li macino io e il loro sguardo era perso dando la sensazione di essere assente.

Io sono cresciuto e mi sono realizzato, mi sono preso le mie soddisfazioni nella vita, sia professionali che in altri campi, ho indossato la giacca e la cravatta nel ruolo, ma non nascondo che quando mi svesto del ruolo continuo come quando avevo 15 anni, a vestire non come i “cristiani”, con i miei amati jeans.

Un abbraccio Epruno.

“La Capanna dello Zio Covid”

Carissimi,

Immaginate per un attimo di esservi assopiti su una bella poltrona reclinabile, nell’istante di quel breve ed iniziale sonno profondo, sintomo di estraneazione dal mondo che ci circonda, momento di massima serenità.

Immaginate a quel punto di ricevere una solenne “boffa” (schiaffo) a palmo aperto in faccia, di quelle che vi lasciano il così detto “sesto di i cincu irita” (la forma delle cinque dita) e di sobbalzare tutto d’un tratto e chiedersi: “ma che è successo, chi è stato?

Ecco, non saprei descrivere in modo migliore l’ingresso nella nostra vita del Covid-19.

Ciò che da li ad ora è avvenuto, ormai è storia, siamo rimasti agli arresti domiciliari nelle nostre case per qualche mese.

Qualcuno ha scoperto di avere una casa, altri di avere una famiglia, altri di avere un vicino di casa, altri di avere nell’animo l’organizzazione di flash mob (i primi giorni) e di cantare nei balconi, altri ancora di avere la vocazione degli atleti e di dover giornalmente fare attività sportiva all’aperto, altri hanno rimpianto di non avere un cane da portare a fare i bisogni all’aperto.

Abbiamo scoperto lo smart-working, il lavoro a distanza e in questa occasione c’è stato anche chi virtualmente, ha scoperto il lavoro. Ci sono stati vertici che hanno scoperto la responsabilità verso i propri dipendenti.

Ammettiamolo, ci siamo scoperti un “popolo” irrequieto, ma sufficientemente disciplinato attraverso la “paura”.

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“Le Priorità dello Zio Aspano”

Carissimi
Lo zio Gaspare, “Aspano”, ma per tutti noi “Rino”, sapeva di certo quale fossero le priorità nella vita.
Fratello di mia nonna lo zio Rino era visto come il più piccolo di una nidiata di figli, come si usava all’epoca in cui determinate donne passavano tutto il periodo della fertilità incinte, per poi terminare il resto della loro vita vestite a nero per i lutti che o vuoi o non vuoi in famiglie così grandi necessariamente dovevano presentarsi con rigorosa cadenza.
Lui non aveva tanti vizi, soltanto tre, “le donne, altrui”, “il gioco delle carte” ed il “calcio” per il quale era in grado di fare pazzie che per gli altri due vizi non avrebbe mai fatto.
Erano i primi anni del dopoguerra e si ripartiva tutti con le pezze al culo e zio Rino non poteva non darsi da fare in mille modi per sbarcare il lunario e perché no, godersi e sperperare quel poco di benessere che suo padre lo zio Gaetano aveva messo da parte, da buon commerciante e difeso durante la guerra.
Non era una bellezza, ma sapeva rendersi affascinante con il suo borsalino, le scarpe sempre lucide, i baffetti alla Errol Flynn e i vestiti di buona fattura. Un giovane così, seppur non troppo alto, era corteggiatissimo da tutte le ragazze di buona famiglia in cerca di marito, soprattutto dai loro genitori che malgrado la fama che lo precedesse speravano sempre in un suo ravvedimento, ma a matula, perché zio Rino aveva le sue priorità, fin quando non fu costretto a sposare la zia Annina (tutti parlarono di amore a prima vista, altri sussurrarono di fracchiate a prima vista, poiché lo zio Nenè papà della zia Annina era un omone che faceva impressione a guardarlo tanto era … “tanto”! Così dopo aver atteso un paio di anni dal fidanzamento della figlia, da buon futuro suocero penso lui a tutto, chiesa, sacerdote, sala di trattenimento e viaggio di nozze, poi convocò lo zio Rino in falegnameria (era questa l’azienda dello zio Nene) e gli fece un discorso semplice, essenziale e convincente: “caro Rino, io ti voglio bene come un figlio e a questa età avrei piacere di poter giocare ogni tanto con dei nipotini. Voglio però ancora più bene a mia figlia Annina e in futuro non vorrei vederla soffrire. Pertanto tu sai che io lavoro il legno e se tu dovessi ancora illudere la mia bambina, io prima ti rumpu i ligna e cu i stessi ligni, ci fazzu a cassa”.

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“Sulle Rive del Don”

Carissimi

Il signor Antonio, non era un mafioso, non era neanche una persona affiliata a famiglie malavitose, non era un prete eppure tutti lo chiamavano “Don”,  gli davano del “Don” e per me che lo guardavo dal basso verso l’alto, visto la mia piccola età, era un gigante, seppur un po’ sghimbescio e non perché era stato fatto male, ma perché la sua postura era rimasta compromessa nel periodo in cui con una valigia di cartone andò a cercare fortuna in Belgio come tanti suoi compaesani, lui era molto orgoglioso di quella esperienza che gli aveva permesso, malgrado il pesante infortunio di guadagnarsi una bella pensione anticipata e tornare qui nella sua terra a ricoprire un ruolo di prestigio e di grande responsabilità, ma non manuale e poi diciamolo benché il paese di nascita avesse dato i natali a gente che avrebbe fatto la storia della prima parte del secolo scorso per aver rappresentato il contropotere, lui, Don Antonio, quella divisa la indossava con grande personalità e specialmente quel cappello con su scritto “Portiere”.

Antonio, il sig. Antonio, per tutti “Don Antonio” era il portinaio del mio stabile e comandava lui, lo si capiva quando le poche volte che nel pomeriggio non veniva sorpreso nel sonno dietro la “guardiola del potere”, restava dritto, beh quasi dritto, vista la sua offesa fisica, in divisa davanti al portone come quei cani da guardia che ti mettevano terrore solo a guardarli, figuriamoci ad avvicinarti.

Lui aveva il potere “di vita e di morte” sul marciapiede davanti la portineria, su quella che era la sua “riva”, tanto che ero più che mai convinto che quel tratto di battuto di cemento fosse dotato di uno statuto speciale e che neanche il Presidente della Repubblica avrebbe potuto intimare nulla a Don Antonio nell’esercizio delle sue funzioni.

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“Teoremi, Postulati e Dogmi”

Qualche volta facendo zapping in tv mi è capitato da imbattermi in incontri di wrestling, la mia attenzione è durata pochissimo il tempo necessario per rendermi conto di cosa stesse andando in scena su quel ring, una “americanata folle”, una violenza gratuità che fa il paio con il pubblico che mi ha rammentato tanto quello che riempiva i circhi romani dove i gladiatori lottavano.

A noi persone con una modesta intelligenza occorre poco tempo per capire che siamo davanti ad una messa in scena tra atleti attori stuntman quanto meno per la quantità di botte che si danno e che manderebbero in convalescenza chiunque.

Ecco, non capendone niente di politica, come vado orgogliosamente dicendo da tempo, ho compreso che la politica mediatica alla quale siamo abituati da qualche tempo altro non è che una gigantesca messa in scena tra professionisti della materia che se ne dicono di tutti i colori (per fortuna non su danno botte, ma non sempre) e che alla fine a riflettori spenti e dietro le quinte finiscono per essere tutti amici nell’unico intento di ottenere un seggio-poltrona e difendersi questo “prezioso lavoro” per il tempo di un mandato e anche oltre.

Mi sono convinto di ciò a seguito di certe discussioni in aula che sembrerebbero dalle preparazioni mediatiche delle “Sfide all’O.K Coral” che alla fine si concludono con un buffetto e un invito a non farlo più (ogni riferimento a fatti e dibattiti su sfiducie è puramente casuale).

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“È arrivato Zampanò!”

Per noi che siamo cresciuti in bianco e nero prima di conoscere il colore, per noi che abbiamo imparato fin da piccoli a distinguere il contrasto tra il bianco e il nero pur apprezzando le sfumature di grigio e viviamo oggi un certo disagio nel percepire una realtà multicolore e sentirci obbligati a “vedere” le cose escludendo dallo spettro visivo una moltitudine di colori.

Paradossalmente quello che era il nitido bianco e nero finisce oggi per esser forzatamente sostituito da “il rosso e il nero” che certamente non è quello di Stendhal.

Siamo cresciuti per strada, perché alle mie latitudini insulari mediterranee il clima permetteva di poter vivere la strada per la quasi totalità dei mesi dell’anno, il tempo era mediamente tiepido e le giornate di pioggia pochissime e quindi la strada da sempre è stata il naturale sfogo e la cosiddetta estensione delle nostre abitazioni.

Addirittura nelle borgate le modeste case avevano le porte finestre con le loro persiane sempre aperte sul marciapiede, solo le tendine nascondevano con pudore l’unico ambiente soggiorno-letto-cucina dalla vista dei passanti, e la strada era costantemente occupato dalle sedie, ancor prima che si inventassero i dehors, dove costantemente le persone anziane passavano il tempo a fare i lavori a maglia o pulire le verdure. Questo eravamo noi, questo siamo noi nella nostra tradizione, la strada era vita e le strette carreggiate favorivano questa creazione di un ambiente comune anche quando il transito e il posteggio delle macchine fini per invaderne la quiete. Ma quale privacy?

Io sono cresciuto per strada, ho giocato sui marciapiedi, ho sognato il mondo futuro attraverso la condivisione di questi spazi, ho giocato a pallone per strada perché di certo non sapevo che cosa fosse un campo in erba.

La strada era la vita, il posto dove i venditori ambulanti ti portavano il mondo a casa, dove i “fottipopolo” con i loro megafoni ti narravano le meraviglie di nuovi prodotti, la strada dei tanti Zampanò.

Ho iniziato in tempi remoti con i miei amici d’infanzia a disegnare con gli scarti di gesso della bottega del gessaio la strada, sia per crearne improbabili campi di calcio su cui giocare con il mitico Super Santos o “piste dove spingere i nostri tappi con lo zicchettone” versione invernale delle piste sulle spiagge dove spingere le palline con dentro le foto dei ciclisti. Quei marciapiedi tenuti con vero decoro urbano, costantemente riparati in quel rito mistico del battuto di cemento e il successivo disegno dei regolari quadroni con la data dell’intervento apposta e la tentazione di inserire il nostro nome nel cemento fresco, erano sedi di partite di “acchiana u patri cu tutti i so figghi” o addirittura della “cavallina”, giochi a costo zero.

Le strade erano lisce e periodicamente veniva rifatto l’asfalto con la posa del tappetino d’usura e poco importa se queste erano fatte dal Comune direttamente o da privati per conto del comune, poiché quello che in quell’età era uno stadio di calcio o un centro polifunzionale nel mio immaginario collettivo era principalmente un servizio pubblico, una viabilità, una zona di transito.

Non posso a colori non constatare che da qualche anno si è dichiarato guerra alla strada e si è trasformato il concetto di base della sua fruizione, nell’attesa di perenni promesse di un razionale ridisegno urbanistico, attraverso mega progetti di servizi per il territorio che rimangono nei proclami dei vari “Zampanò che sulla strada si sono fermati periodicamente per raccogliere attenzione. Vedo soltanto un accanimento terapeutico sulla strada divenuta centro di raccolta di tributi attraverso le “zone blu”, le “Ztl ma per farne cosa?

Manutenzioni sulle stesse carreggiate? Una delle offese maggiori al manto stradale ormai inesistente in questi anni è stato rappresentato dagli scavi nastriformi per i servizi a rete e le fibre, un continuo zig zag di dossi, di canali, di buche, di tombini sprofondati senza che nessuno chiamasse alla propria responsabilità gli esecutori per l’assenza di un coordinamento tra questi scavi e soprattutto la regola d’arte nel loro ripristino. Ci sono dei regolamenti? Non ci sono? Necessita predisporre questi regolamenti?

Adesso perdonatemi se non mi sono fatto coinvolgere in “visioni” di ciò che sarà o dibattiti su ciò che si sta facendo attraverso le linee dei tram e il disegno (simile alle nostre piste per i tappi in gioventù) di artistiche piste ciclabili su marciapiedi o carreggiate stradali ridotte, io sto a discutere su ciò che già c’era ed abbiamo perso, sul diritto del cittadino di non farsi male mettendosi per strada, di non appesantire i conti pubblici nel pagare le molteplici cause per infortuni sulla strada.

E’ lesa maestà da cittadino pretendere ormai dal prossimo “Zampanò” di iniziare dal rispettare il cittadino utente e dal riparare ciò che già esiste? C’è dubbio che il mio internet rischierà di andare meno veloce, con questa o le compagnie telefoniche concorrenti, ma vuoi mettere che grande sollievo nell’evitare di sminchiarmi cadendo con la moto a causa di un dei tanti “canali stradali” o evitare dolorose storte alle caviglie o mettere a repentaglio “qualche femore” passeggiando sui marciapiedi?

Un abbraccio, Epruno

Non è mai troppo tardi!

il 14 settembre dovrebbero ricominciare le scuole, post Covid-19. Dico dovrebbero perché ancora ci sono tante difficoltà e in più occorrerebbe tanta prudenza, ma state certi che avendolo dichiarato ai quattro venti i governanti faranno la “minchiata” di riaprirle comunque, anche se ciò dovesse causare conseguenze. Il mondo della scuola è cambiato molto e in peggio, ma non per chi si impegna ogni giorno lavorandoci ma per chi dall’alto propone riforme su riforme e la destabilizza facendo perdere il valore dell’allora “pezzo di carta” e la credibilità della meritocrazia e le istituzioni.

Ma si può non pensare a quello che fu il vero inizio delle nostre scuole, la data di S. Remigio, il primo di ottobre in cui tutti ci afferravamo la cartella e il panierino e iniziavamo il nostro anno scolastico?

Si può non pensare ad Enrichetto e il Mago Zurli, figura mitologica in pantaloncini corti che oggi passerebbe indifferente con il suo abbigliamento stravagante.

Si può non pensare al Maestro Manzi?  Vi ho colto impreparati, ma qui l’età fa la differenza.

Io sono cresciuto in una scuola dove i banchi erano tutti di legno, con seduta fissa che si ribaltava, un piano di scrittura inclinato ricoperto di una cosa pareva pece o che caz.. sa che fosse che lo rendeva nero, e nella sua linea di colmo superiore c’era una sorta di foro a bicchiere per il calamaio di vecchia memoria e il distanziamento sociale nel banco a due posti era già dato dalla misura degli stessi e dall’allontanamento naturale dal compagno di banco che la mattina prima di andare a scuola, manco si lavava. E che dire di quell’odore di murtatella o di uovo ciruso che ti saliva dal basso fuoriuscendo dal cestino per la colazione.

Ci portavamo il mangiare da casa, compreso il panino con la frittata o la cotoletta (i più ricchi) e non si ammalava nessuno, molti di noi sono diventate figure rispettabili della nostra società che fin dall’inizio ci rendeva tutti uguali indossando il grembiulino. Andavamo a scuola senza riscaldamenti e in alcuni casi usufruivamo del tepore che giungeva dalla stufetta che la maestra teneva sotto le cosce sotto la cattedra. I più fortunati bimbi nelle nostre località montane andavano a scuola portandosi la “scarfetta” …ehhhh ma qui ci vorrebbe un brano a parte. Non studiavi o soltanto eri indisciplinato? Ti aspettava lo stare dietro la lavagna, ma se esageravi ti arrivava un corpo di bacchetta di legno o una boffa. Quando tornavi a casa e la tua mamma o il tuo papà leggeva sul tuo viso “u sestu di i cincu dita” (il segno dello schiaffo) t’assicutava casa, casa per darti il resto delle legnate e quando era costretto ad accompagnarti a scuola, ti introduceva alla vista del maestro tirandoti da un orecchio e continuando a prenderti a boffe tanto che il maestro ad un certo punto a dire basta!

La scuola era una istituzione e mandare i figli a scuola era un segnale di affrancamento e una speranza di futuro per i figli; oggi se il maestro si fa scappare un rimprovero verso l’allievo il bardascio del papà s’appresenta a scuola per picchiare maestro, bidello e preside perché tanto lui non ha rispetto per l’istituzione e per la scuola perché qualcuno gli ha dimostrato che la scuola non serve a niente, prendendolo dalla strada, uscito da galera e impiegatolo nella pubblica amministrazione con canale preferenziale di ex detenuto. Come dargli torto.

La mia era una scuola nella quale erano passati soltanto 20 anni dalla fine della guerra e il paese era ancora da alfabetizzare in buona parte e la RAI mandava in TV il Maestro Manzi con il suo sorrisone rassicurante e coinvolgente, figura doncamillesca, che istruiva i poveri contadini, operai, le persone anziane, uomini e donne, gente umile in quel loro vestito unico e migliore, con il volto solcato dal sole e dai sacrifici che con tanta tenerezza andavano alla lavagna a scrivere con il gesso il verbo essere, declinato ma ancor prima le vocali. Quella gente aveva la speranza in quel titolo di studi che doveva contare qualcosa.

Nella mia scuola non si arrivava mai a studiare la storia contemporanea fermandoci al Risorgimento perché cosa dovevano raccontarci se i protagonisti erano ancora vivi, così tornavi a casa e chiedevi: “papà perché gli americani che hanno bombardato Palermo li chiamiamo alleati?” E il papà ti diceva: “chiedilo domani al maestro”. E il maestro ti avrebbe detto “quando arriveremo a quella parte del programma ve ne parlerò (vuol dire mai)”. Oggi voi insistendo chiedereste “Papà chi è questo on. Burbazza a cui si fa riferimento per la liberazione della Sicilia?

Vostro padre preso dai tanti pensieri vi risponderebbe di chiederlo al vostro professore e l’indomani una volta fattolo il Prof. Burbazza, vi risponderebbe “quando arriveremo a quella parte del programma ve ne parlerò …ma…tu giovanotto vedi troppi film… Ti fai troppe domande. Ricordati, la scuola ti insegna quello che devi sapere, poichè quello che dovresti sapere a tutt’oggi è ancora “un segreto di stato” quindi nell’attesa non ci rompere la Min…. e divertiti”.

Tornando a casa nel dire a papà che ti sei accorto della coincidenza che l’On. e il tuo professore avevano lo stesso cognome, in quel caso si che anche oggi prenderesti una sonante boffa e la risposta …. “Ti fai troppe domande. A scuola si va per studiare, perché cu è fissa si sta a casa!”. Si potrà mai cambiare?

Non è mai troppo tardi”, buona scuola a tutti.

Un abbraccio, Epruno