Carissimi
Io avevo uno Zio, in realtà fratello di mio nonno, ma lo chiamavo Zio, sordo come una campana.
Zio Mariano, questo era il suo nome, lo ricordo ancora per la sua figura autorevole, la sua coppola, la sua giacca e pantaloni di velluto, qualunque fosse stata la stagione, seduto nella sua sedia con il suo bastone a portata di mano.
I miei ricordi sono molto lontani ma ben scolpiti nella mente di un bambino che all’epoca aveva dieci anni o poco più.
Lui era di poche parole e ogni sua frase era una sentenza e con me spesso interrompeva il suo silenzio e proferendo frasi per darmi consigli, forse perché mi vedeva lì piccolo e indifeso.
Ogni qual volta chiedevo notizie alla zia, come stesse Zio Mariano, lei mi rispondeva: “stabile.”
Credetemi in quegli anni nei quali nelle scuole pubbliche si veniva messi insieme, ricchi, poveri senza distinzione di ceto sociale, ancor prima che ci si differenziasse crescendo, magari con l’iscrizione in licei privati o pubblici che avessero evidente le nostre origini e il nostro futuro già predestinato, più di una volta trovandomi a disaggio nei racconti tra bambini che ostentavano, ricchezze, nobiltà o parentele famose, io con convinzione ostentavo l’avere mio Zio Mariano al quale in vita, a Palermo, gli fosse stata dedicata una strada importante nel centro, Via Mariano Stabile.
La mia ingenuità dovette attendere qualche anno per giungere a distinguere un cognome da un aggettivo, ma se c’era una logica, l’autorevolezza e la saggezza di un personaggio come Zio Mariano doveva meritare l’intitolazione di una strada o quanto meno una statua.
Ricordo ancora quando orgogliosamente mi mostrava il colletto della sua smunta giacca dicendomi: “vedi, questa giacca non ha asola, figlio mio e ricordati sempre di non permettere a nessuno di affiggerti distintivi, metterti casacche e di identificarti come appartenente a qualcuno o qualche cosa, studia, apri la tua mente e resta libero e non avrai bisogno di nessuno”.
Zio Mariano aveva visto passare il mondo da sotto la sua finestra, forse aveva lasciato una volta sola il suo paese, ma per mancare tre anni, quando aveva diciotto anni e da quella esperienza nella trincea non era più ritornato lo stesso. Non voleva sentire parlare di armi, ma forse non poteva sentire a prescindere visto che quella granata scoppiatagli accanto aveva danneggiato irrimediabilmente il suo udito e dopo aver visto la morte e portato la morte ad un nemico che non conosceva, che non gli aveva fatto niente.
Non voleva sentire parlare di divise e odiava finanche le pettorine che le confraternite del paese usavano per le processioni.
Rifiutava l’autorità, ma non era un anarchico, pensava solo che un idiota sol perché abbia una ribalta e un potere non è detto che dicesse cose giuste, a maggior ragione se questi predicasse odio verso gli altri.
Zio Mariano era lì, stabile, nella sua sedia, dietro quella ringhiera del suo balconcino, a raccogliere i saluti della gente che passava con referenza sotto la sua casa, salutandolo come “Don Mariano” per avere avuto due soli pregi, il parlare lo stretto necessario e l’aver mantenuto la sua libertà.
Oggi, che Zio Mariano riposa, anche in questo caso “stabile”, nella sua piccola estrema dimora, le persiane della sua finestra a balcone sono chiuse e sotto c’è soltanto un via vai di gente che si affanna per farsi notare, e parla a sproposito e si mette in posa al solo scopo di farsi comprare da qualcuno che possa cambiargli la vita cedendo il proprio cervello e la propria libertà al potente di turno, negando l’evidenza e dimenticando che per rimanere “stabili” e non vacillare, occorre aver carattere.
Un abbraccio, Epruno