Carissimi
“Ne dites pas à ma mère que je suis dans la publicitè… Elle me croit pianiste dans un bordel” (Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello).
Così disse Jacques Séguéla giornalista e scrittore francese fondatore di una delle più grandi agenzie pubblicitarie del mondo.
Avevamo una società che con tutti i suoi limiti e i suoi difetti svolgeva le sue funzioni istituzionali con una certa serietà, chi doveva dirigerci aveva quanto meno una esperienza e anzianità di settore.
Si arrivava in alto avendo fatto una certa “gavetta”, vi erano delle regole non scritte che ci consigliavano di fare un certo percorso costruttivo che permetteva un certo avvicendamento con l’età e perché no, diciamolo, anche un minimo “ascensore sociale”.
Studiavamo perché dovevamo prendere il “pezzo di carta” e la scuola era una istituzione seria e rispettata e non era una circostanza legata al denaro, perché i maestri, gli insegnanti, i professori hanno guadagnato sempre poco come tutti i servitori dello stato.
Poi un giorno abbiamo voluto copiare modelli stranieri, dell’est e dell’ovest personalizzandoli con la nostra “paraculagine” locale, abbiamo messo attraverso la politica, i sindacati, le organizzazioni di vario genere la dirigenza dell’Italia nelle mani dei mediocri, spesso dei cretini, di coloro che non ci arrivano e pertanto devono semplificare, abbassare l’asticella, massificare decidendo che eravamo “tutti uguali” (non solo agli occhi di Dio) a prescindere dalla nostra storia formativa, dai “veri titoli” e non da quelli “artificiali” comprati.
E dire che questa nazione ci aveva permesso una istruzione obbligatoria e poi attraverso una scuola ed una università statale con maestri seri, preparati e molte volte “figure eccellenti della nostra società” aveva dato la possibilità a chiunque di arrivare in cima.
Sento parlare di volere abolire il valore legale del titolo di studi, vogliamo diventare americani, vogliamo costruire una società tutta basata sul denaro, sul successo, sul modello del vincente a tutti i costi, dove arrivano in cima solo i ricchi perché possono comprare e le famiglie fin da prima di fare figli iniziano ad indebitarsi per poterli mandare un giorno all’università.
Abolire il valore legale di una laurea dopo che abbiamo fatto di tutto per sminuirla di significato, mi fa ripensare a Séguéla tanto da dire oggi insieme a tanti altri colleghi: “Non dite a mia madre che faccio l’ingegnere… Lei sa che suono il piano in un bordello”.
Si, vorrebbero farci credere che oggi una laurea non vale più nulla, che abbiamo fin qui scherzato e che forse è più dignitoso lavorare in un bordello, ma non come prostituta, peggio, come colui che suona il piano per intrattenere i clienti, con una autostima peggiore di quella di un cuoco costretto a friggere patatine da McDonald’s.
Avremmo dovuto essere più “albionici” in ciò, poiché avremmo dovuto difendere le nostre tradizioni, la nostra unicità, le nostre diversità (senza che ciò comporti necessariamente parlare di nazionalismi) nell’aprire i nostri confini agli altri e nel metterci insieme subendo soltanto le impostazioni anglosassoni di euro codici (spesso scritti quali collage di norme) che finivano per soppiantare norme scritte bene sulla base di un tradizione normativa che affonda le radici nel diritto romano.
No, non perdonerò mai chi ha voluto soppiantare nel mio ambito professionale l’impostazione e la chiarezza normativa e applicativa di un “Regio Decreto” durato cento cinquanta anni con un “codice degli appalti” omnicomprensivo, frutto del vezzo dei testi unici anglosassoni ed in continua revisione e mutazione.
Oggi ci siamo ridotti a copiare quanto di fatuo viene da fuori. Continuiamo a tentare di innestare giovani tradizioni che non ci appartengono.
Continuiamo a festeggiare una festa celtica quale Halloween (se mi permetterete io continuerò ad onorare la ricorrenza dei “muorti”).
Importiamo le “artificiali” sfilate del“graduation day” con cappelli di cartone (mi dispiace se qualche amico si offenderà, ma io continuerò a preferire il vestito elegante e la cravatta della laurea e al cappello di cartone, prediligerò sempre la “feluca”).
Continuiamo a celebrare le giornate del frenetico acquisto del Black Friday dove ci si picchia per accaparrarsi il TV di ultima generazione a prezzo super scontato e dire che il Black Friday (“venerdì nero”) negli Stati Uniti segue il “giorno del ringraziamento” e dà inizio alla stagione degli acquisti.
Ma da noi, ringraziamento di che? Dice che avevamo “le pezze nel cu..?”
Ma che paese stiamo diventando? Vogliamo diventare così “banali”? Facciamolo.
Dopo aver tagliato le nostre radici sacrificandole all’altare della globalizzazione, non lamentiamoci se ci scopriremo sempre più simili a modelli societari più cinici, più competitivi e sempre meno un grande popolo solidare, sempre meno “italiani brava gente”, lasciando indietro gli ultimi, sia in terra che in mare.
Un abbraccio, Epruno.